Mosaico in frantumi?
Alle 3,33 ora italiana del 20 marzo 2003 iniziano i bombardamenti sull’Iraq. È la seconda guerra del Golfo, chiamata “Iraqi Freedom”, che ufficialmente finisce il 15 dicembre 2011, con l’impegno del ritiro dal suolo iracheno degli ultimi 4.000 soldati americani entro la fine del 2011. Le fonti di informazione ufficiale parlano di 4.500 soldati americani uccisi. E gli iracheni? Si dice oltre 100.000 morti. Ma chi li ha mai contati? In dollari, il costo economico di questa guerra si aggira sui mille miliardi.
Non dimentichiamo però che l’ambasciata Usa a Baghdad è la più grande del mondo. E già questo la dice lunga sul possibile abbandono dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Un’ambasciata grande come 80 campi da calcio, con 21 edifici, capace di ospitare sino a mille persone e con un costo di circa 600 milioni di dollari. Non è facile fare valutazioni.
Certo che alcuni dati e alcune considerazioni – che si possono trovare sui vari siti di chi ancora si interessa all’Iraq e alla sua gente – sono preoccupanti.
Minoranze
Sul sito www.osservatorioiraq.it si può leggere questo breve ma inquietante articolo, che ricorda un’espressione, mosaico, che spesso abbiamo usato nelle nostre pagine. “Iraq: mosaico in frantumi, cristiani scesi all’1 per cento. L’Iraq potrebbe presto perdere la sua minoranza cristiana se non verranno presi provvedimenti atti ad aiutare coloro che sono in estrema difficoltà con il proprio lavoro o che non riescono a trovarlo. Lo afferma il ministro iracheno per la Pianificazione, Ali al-Shakari. Il ministro ha detto di ritenere che attualmente i cristiani sono arrivati a rappresentare meno dell’1% dell’intera popolazione irachena, contro il 5% del censimento effettuato nel 1977”. E colpisce la constatazione che, con freddezza e realismo, viene fatta addirittura dall’arcivescovo militare degli Stati Uniti d’America, mons. Timothy Broglio: “Sì, si può dire in un certo senso che l’invasione dell’Iraq ha provocato questa diminuzione enorme della popolazione cristiana in quel Paese. E cosa riserva il futuro è ancora tutto da vedere”.
Tra gli amici che da sempre ci hanno accolto e accompagnato a incontrare l’Iraq e la sua gente, c’è mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk. Lo sento al telefono, mentre sta partendo per Ginevra dove, ai primi di marzo, è in programma un incontro sui diritti umani.
“Abuna, cosa dirai sui diritti umani in Iraq?” gli chiedo. “Dirò che nella pratica c’è molto poco. Nella teoria invece, sembra il Paradiso. In questi Paesi non c’è molto rispetto per i diritti umani, ma mi pare che anche da voi…. Che dire? Mi sembra che non ci sia rispetto dell’altro, di chi è diverso da me. Come vivere insieme se non c’è questo rispetto reciproco? È fondamentale. Mi sembra che qui in Iraq ascoltiamo molti discorsi, che potrei definire ‘diplomatici’, calcolatori e opportunisti. Ma nella concretezza si assiste a molto egoismo, individualismo. L’altro non esiste o se esiste deve essere al mio servizio. Ma noi siamo chiamati a testimoniare che siamo stati creati gli uni per gli altri. C’è molta ricerca del potere, come in quel brano del Vangelo dove i due fratelli cercano un posto di privilegio, creando invidia negli altri. E Gesù li rimprovera, perché è venuto a portare l’amore, il servizio, non il potere. Anche per questo qui a Kirkuk abbiamo fatto alcuni incontri tra giovani cristiani e musulmani e altri ne abbiamo in programma”.
La cultura nonviolenta
Sul sito di asianews.it è possibile trovare qualche notizia e commento a proposito. “Kirkuk: giovani cristiani e musulmani per promuovere pace e dialogo interreligioso. Nella cattedrale caldea di Kirkuk, nel nord dell’Iraq, l’arcivescovo mons. Louis Sako ha incontrato circa 35 ragazzi e ragazze, musulmani e cristiani, sul tema “della nonviolenza e della convivenza pacifica” fra i fedeli delle due grandi religioni monoteiste… Per la terza volta i giovani hanno animato discussioni e confronti, volti a rafforzare speranze e aspettative di armonia interconfessionale nella città.
La società Amal, impegnata nel civile, e l’arcivescovado caldeo hanno organizzato il workshop. In apertura dell’incontro, mons. Louis Sako ha salutato i presenti e ha parlato dell’importanza della cultura della nonviolenza, del rispetto reciproco tra persone di fedi diverse; essa, ha aggiunto il prelato, presuppone una “conoscenza diretta delle fonti, mentre spesso ci si affida a storie non verificate e dicerie”. “Dobbiamo convincerci che il nostro destino è uno: aprirci al dialogo, responsabilizzarci gli uni verso gli altri”. Al gruppo si è aggiunto anche l’imam della grande moschea di Kirkuk, lo sceicco Ahmad Al-Hamad Al-Amin, che ha sottolineato il concetto di “nonviolenza nell’islam”. “Questi workshop – afferma mons. Sako – sono molto utili perché creano rapporti nel lungo periodo fra i giovani. Essi sono il futuro e la speranza del Paese, perciò bisogna fornire loro una cultura corretta, solida e concreta per realizzare l’ideale di coesistenza pacifica e rispetto del pluralismo”. Ed è con questo spirito che era stato inaugurato, poco prima dello scorso Natale, sempre a Kirkuk, davanti alla Cattedrale, il monumento per ricordare i 36 martiri cristiani della città, dall’inizio dell’invasione americana nel 2003 a oggi. Non possiamo dimenticare, tra i tanti martiri, l’assassinio di mons. Rahho, il 13 marzo 2008. “Noi cristiani – aveva detto mons. Sako – siamo chiamati a diventare un ponte per unire tutte le culture”. E qualcuno torna a parlare di nuovo della visita del Papa nella terra di Abramo. Se ne parlava già nel 1998, ai tempi dell’embargo, e poi anche in vista del Giubileo del 2000.
Vita quotidiana
Ma è interessante guardare anche ad altri aspetti della vita irachena, ad esempio il cinema. Sempre su osservatorioiraq.it si legge: “Come possiamo costruire un sistema democratico che rispetti i valori dei diritti umani in un Paese la cui popolazione ha sofferto la tirannia, la brutalità e l’umiliazione per decenni, così da non riuscire più a credere di avere dei diritti naturali?”. “Come è possibile diffondere una cultura dei diritti umani tra chi è ostaggio dell’analfabetismo culturale derivante da decenni di sforzi dittatoriali sistematici?”.
La risposta è il cinema. Per questo il Baghdad Eye – Human Rights Film Festival, tenutosi tra il 25 e il 28 febbraio scorso, ha puntato sul grande schermo per combattere la corruzione, il degrado, la violenza e la discriminazione contro le donne, per far conoscere i diritti dei bambini e rivendicare la libertà di espressione.
Tra i film presentati al festival, “Speak your mind” di Emad Ali, che denuncia l’uccisione di 253 giornalisti iracheni sin dal 2003.
Significativi i dati di un recente studio, riportato da Angela Zurzolo su osservatorioiraq.it. “Con il ritiro delle truppe statunitensi si era fatta decisamente più forte la paura della guerra confessionale. Sebbene non si possa dire che essa sia stata ancora scongiurata, dalle statistiche relative ai morti e agli attacchi registrati nel primo mese del nuovo anno è emerso un dato significativo. Due organizzazioni che operano sul territorio hanno dichiarato che il numero delle vittime è già aumentato nel 2012 rispetto all’anno precedente… se la situazione dovesse restare immutata si avrebbe una media di 369 morti al mese e 11,9 al giorno, perfettamente in linea con il 2011”.
Che dire? Forse, ancora una volta, possiamo lasciar parlare gli amici iracheni.
Ad ogni incontro ci salutano dicendo: “Non dimenticateci”.