CRISI

La Grecia siamo noi

Quanto accade in Grecia interroga tutti sulle politiche economiche condotte in Europa. Siamo proprio sicuri che l’austerità imposta sia la via d’uscita?
Giuseppe Tattara (Docente di economia internazionale all’Università di Venezia)

L’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea stanno imponendo duri sacrifici al popolo greco. La bancarotta è già in corso, la Grecia è ora in una situazione peggiore di quanto non fosse due anni fa, quando si è cominciato a parlare del suo debito, perché il partito conservatore Nuova democrazia ha portato la Grecia al disastro economico, ha mentito sull’entità del deficit pubblico, ha gestito in modo irresponsabile le spese per le Olimpiadi e la spesa pubblica in generale; solo nel 2010, quando già le finanze erano disastrate, c’è stata un’assunzione record di dipendenti pubblici. La Grecia ha una enorme evasione fiscale, maggiore in relazione al Pil (prodotto interno lordo) di quella italiana, una grande economia sommersa, e spese militari ingenti, tre-quattro volte quelle dell’Italia (tenuto conto della diversa ricchezza dei due Paesi). La Grecia è il 13° Paese nella graduatoria spese militari/Pil.

E le armi?
Il debito greco in questi due anni ha continuato a salire e il prodotto interno a cadere come conseguenza delle misure di austerità che sono state nel frattempo imposte dai prestiti degli organismi internazionali. Prestiti dati a spizzico, tentennando, che hanno fatto più male che bene e che hanno comportato l’obbligo di misure di austerità molto dure, più dure di quelle prese nei confronti di altri Paesi in situazioni analoghe. Interessante notare che oggi gli organismi internazionali pongono al primo punto la richiesta di ridurre la spesa sanitaria (1 miliardo di euro), al secondo di ridurre la spesa per il pagamento degli straordinari ai medici ospedalieri e solo al terzo punto la riduzione per 300 milioni delle spese per gli armamenti. Parte degli aiuti, che la Grecia riceverà in cambio dei prestiti, è vincolata all’acquisto di armi tedesche e francesi, acquisto che il socialista Papandreou aveva messo in discussione e in parte ridimensionato già alla ricezione dei primi finanziamenti, ma che il suo successore Papademos si guarda bene dal mettere in dubbio. Per il 2012 la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi di euro, il 18,2 per cento in più rispetto al 2011, il 3-4% per cento del Pil. In Italia la spesa militare è lo 0,9 per cento del Pil.
I produttori di armamenti hanno bisogno del forte sostegno dei governi dei propri Paesi per vendere la loro merce, e i governi fanno pressione sui possibili acquirenti; la negoziazione dei prestiti internazionali è da sempre una delle strade più seguite per indurre i Paesi poveri a questi acquisti. Con questa politica le spese militari continuano a crescere paurosamente.

Troppa austerità
Si stima che il Pil pro capite in termini reali, in Grecia, sia caduto dal 2009 al 2012 di più del 20%; il 2012 è il quarto anno in cui il Pil presenta un tasso di crescita negativo. Una caduta che non ha eguali tra i Paesi dell’area euro, che viene dopo anni di crescita piuttosto sostenuta, e che ha portato un rapido aumento del tasso di disoccupazione.
D’altra parte, non si è mai visto un Paese in depressione, con bassa inflazione, uscire da una crisi adottando misure di austerità, se non svalutando drasticamente la moneta. Questa ultima opzione sembra preclusa alla Grecia, se non lasciando l’euro. Lasciare l’euro probabilmente creerebbe più problemi di quanti ne possa risolvere e i Greci sono i primi a non volerlo: si aprirebbe un processo caotico, non regolato, che trascinerebbe le imprese greche in contenziosi legali senza termine, con una paralisi che colpirebbe l’intero sistema economico per parecchi anni, genererebbe un’elevata inflazione e metterebbe ad ancor più dura prova le classi dei lavoratori salariati, che vedrebbero eroso il loro potere di acquisto.
Perché allora, di fronte all’evidenza che l’austerità rappresenta una cura peggiore del male, non è impossibile interrompere la sequenza di scelte suicide? Ci sono alcune risposte, e proviamo ad abbozzarne due. Prima: sulla Grecia si scaricano problemi politici interni ai principali Paesi dell’area euro. Seconda: salvare la Grecia significa accettare il venir meno del “sacro” principio che la virtù, cioè l’austerità, porta alla stabilità, alla crescita. In altre parole sulla Grecia si scaricano problemi che con la Grecia non hanno nulla a che fare.

Possibili soluzioni
Analizziamo la prima risposta. Il 20 marzo prossimo scade una grande tranche del debito greco e si cerca un preventivo accordo per non far fallire la Grecia. Senza aiuti esteri la Grecia non è certo in grado di ripagare il debito che viene in scadenza. Si mira a salvare i creditori, pagando loro, con i prestiti da parte degli organismi internazionali, almeno parte del loro credito (si parla del 30%). Vale la pena di mettere a ferro e fuoco un Paese per rimborsare ai creditori il 30% del loro credito? E chi sono i creditori? Per 1/3 si stima che siano creditori interni, cioè greci, e possiamo ben pensare che siano greci ricchi, non certo coloro che sono più colpiti dall’austerità. Per poco meno di 2/3 sono banche straniere; le grandi banche francesi e poi tedesche e inglesi; queste ultime due arrivano alla metà di quanto sottoscritto dalle banche francesi. Perché salvare le banche? Abbandonare Paris Bas e Societé Generale sarebbe politicamente insostenibile per Sarkozy, più che per le banche stesse che potrebbero alla fine contare su di un intervento da parte della Banca Centrale Europea. L’obiettivo vero di questa operazione è quello di creare un consenso politico interno per Sarkozy e per Merkel, che li sostenga alle vicine elezioni. Le presidenziali francesi sono previste per il 22 aprile e il 6 maggio e in Germania si vota nel 2013. Sarkozy paga la difficile situazione economica del Paese e l’impressione è che, in Europa, la Francia non riesca ad avere il peso dell’influenza della Germania, finendo per esservi sottomessa. La presidenza di Sarkozy è stata colpita da diversi scandali che hanno riguardato anche molto da vicino il presidente, che ha bisogno ora di riguadagnare credibilità a destra. Perdere l’appoggio delle grandi banche significherebbe perdere l’appoggio di larga parte dell’opinione pubblica e sarebbe per lui, in questo momento, letale.
Passiamo alla seconda risposta: l’austerità e il suo mito. La cancelliera Merkel si prepara alle elezioni prossime, nel 2013, e sposa l’idea che da alcuni anni la Germania incarna al meglio: il miracolo tedesco è nato dalla austerità e dalla laboriosità di quel popolo, dalla valuta forte, dalle eccezionali esportazioni, dai salari moderati. I Paesi del Sud sono gozzoviglioni, si sono indebitati e ora sono puniti dai mercati e devono mettere ordine in casa propria. Ma questo pensiero ha alla base un’idea macroeconomica errata: la convinzione che prudenza, frugalità, competitività se possono garantire il benessere di un Paese, qualora siano perseguite da tutti, possano garantire il benessere collettivo.
Quante volte, in questa occasione, ci siamo sentiti ripetere la favola della formica e della cicala? Ma non è vero a livello macroeconomico. Gli avanzi nei conti (con l’estero) non sono una virtù etica e i disavanzi non sono causati dalla smania di divertirsi degli spendaccioni; avanzi e disavanzi sono uno la contropartita dell’altro. Non ci sarebbe un Paese austero, in avanzo, (che vende più di quanto compera) se non ce ne fossero altri in disavanzo, gli spendaccioni (che comperano quello che il primo vende e quindi comperano più di quello che essi stessi vendono). A livello globale il saldo dei conti con l’estero è zero: le importazioni dell’uno sono le esportazioni dell’altro.
I politici tedeschi vendono all’opinione pubblica del loro Paese demagogia. Camuffano per virtù un’idea macroeconomica insostenibile e infondata. Austerità non è oggi una priorità; prioritaria è la creazione di domanda effettiva. Prioritari sono gli eurobond o altre forme che uniscano un rilancio della domanda a una garanzia di stabilità e tutelino, ben inteso, i diversi Paesi con misure reciproche (e non unilaterali) di controllo e di perequazione fiscale, responsabili e credibili (e qui certo la Grecia ci ha messo del suo nel peggiorare le cose).
Quello che evidenzia la crisi greca e che non vogliamo capire è la mancanza di una cultura europea solidale; manca un sentire comune europeo: ogni Paese agisce in base ai propri interessi nazionali. L’Ungheria, la Romania, il Portogallo, la Grecia sono spinti a ricercare nel nazionalismo, nella xenofobia, uno sbocco ai propri problemi, che può essere solo apparente. Senza un regime solidale i Paesi più deboli cercano inevitabilmente di isolarsi dall’esterno, sperano di poter risolvere da sé un problema che investe gli equilibri mondiali e, così facendo, lo peggiorano. La crisi del 1929 non ci ha proprio insegnato nulla!

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