Dalla Sentenza Eternit a Rio+20
Per una strana coincidenza o ricorso storico, la sentenza contro i manager dell’Eternit si collega all’imminente vertice delle Nazioni Unite su Sviluppo Sostenibile che si terrà a Rio a metà giugno, la cosiddetta Rio+20. Venti anni fa, uno dei due manager condannati, Stephan Schmidtheiny fondò la lobby imprenditoriale del Business Council on Sustainable Development e la lanciò a Rio nel corso della Conferenza su Sviluppo ed Ambiente assieme al suo libro "Changing Course" (mutando la rotta) per propugnare la causa delle imprese “verdi”, e del ruolo chiave del settore privato nelle politiche di sviluppo sostenibile.
Eravamo all’indomani della fine della Guerra Fredda, che aveva portato con sé l’illusione che la forza del mercato e del consumo di beni potessero assicurare il progresso ed il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Ogni laccio o lacciuolo rappresentato da politiche pubbliche, o da ipotesi di regolamentazione delle attività delle imprese andava perciò smantellato. Non a caso poco prima della Conferenza di Rio venne chiuso l’ufficio delle Nazioni Unite che stava lavorando ad una Convenzione internazionale vincolante sulle imprese. Al diritto internazionale pubblico venne sostituito il diritto internazionale privato, le regole lasse della “lex mercatoria”, il principio di Responsabilità Sociale d’Impresa. Accanto alla fiducia nei confronti delle imprese transnazionali, si coltivava la speranza che il dividendo di pace generato dalla fine della guerra fredda potesse contribuire ad assicurare un futuro migliore per l’umanità attraverso un aumento delle risorse destinate allo sviluppo e alla lotta alla povertà.
La “longa manus” della lobby incarnata da Schmidtheiny si fece sentire anche dieci anni dopo, alla Conferenza di Johannesburg, o Rio+10 che consacrò l’era del partenariato tra Nazioni Unite ed imprese, nel quadro del Global Compact. Il discorso sullo sviluppo sostenibile venne così rapidamente cooptato da chi vedeva nei partenariati pubblico-privato per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio, un’opportunità per le imprese di accedere a settori quali l’acqua, la salute, l’educazione. Insomma, un approccio ancillare a quello che vedeva nell’allargamento dell’ambito negoziale di Johannesburg a comprendere questioni quali il commercio internazionale e gli investimenti, per poter trovare uno spazio alternativo a quello dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il cui negoziato di Doha stentava a decollare.
Ora, dieci anni dopo si potrebbe assistere in nome della “Green Economy”, alla promozione di strumenti finanziari per l’ambiente, di derivati verdi, modelli di commercio globale di permessi di emissione, di tutela della biodiversità, di privatizzazione ulteriore dei beni comuni. Basta leggere un importante documento preparato dall’UNEP (Agenzia Onu per l’Ambiente) che teorizza un approccio di mercato alle questioni ambientali, nella convinzione che la mancata applicazione delle politiche ambientali sia solo conseguenze di “errori di mercato” nell’attribuzione di valori economici e monetari a servizi ambientali. Lo stesso rapporto riafferma la fede nella proprietà privata, e nella possibilità che attraverso la proprietà privata delle risorse naturali si possa assicurare un loro utilizzo sostenibile. Altro che beni comuni o “commons”.
Sul tema della Green Economy e sui rischi di un approccio di mercato si gioca una buona parte della discussione politica e teorica verso Rio+20. E la sentenza Eternit dimostra come in mancanza di un quadro di regole vincolanti per le imprese, e di un forte “ancoraggio” ai diritti umani ogni considerazione sociale, o ambientale resta in secondo piano rispetto all’obiettivo del profitto.
La Conferenza dovrebbe anche discutere di un riassetto degli strumenti globali di governo delle questioni ambientali, ma ad oggi non si è ancora trovato un accordo sulla forma, se cioè rafforzare l’UNEP oppure costituire un Consiglio per lo Sviluppo Sostenibile. L’Unione Europea ha già fatto sapere che insisterà per un esito positivo di Rio, forte del ruolo svolto nel salvataggio in zona Cesarini del negoziato sul Clima di Durban del dicembre scorso. Tra i punti di forza della posizione europea il rilancio della cooperazione internazionale allo sviluppo (un controsenso visti i tagli crescenti ai fondi di cooperazione di molti paesi europei) verso quella meta finora irraggiungibile dello 0,7% del PIL, ed il lancio di un’iniziativa sull’accesso all’energia che possa fin d’ora mettere in pratica alcuni degli obiettivi della Conferenza sui Cambiamenti Climatici riguardo le energie rinnovabili ed un modello di sviluppo a basso contenuto di CO2. Ha colpito anche una recente dichiarazione di Connie Hedegaard (Commissaria per il Clima) secondo cui a Conferenza di Rio dovrà impegnarsi superare il paradigma della crescita, e i parametri del PIL.
Certamente leggendo la prima bozza di documento negoziale, la cosiddetta “Zero draft” le speranze di un esito di alto livello restano esigue. C’è però un altro percorso che si sta sviluppando verso Rio+20, al lato di quello delle consultazioni con la società civile ed è quello dei movimenti sociali che si ispirano all’ecologia sociale ed alla critica radicale al modello neoliberista. Movimenti che stanno lavorando per la convocazione di un Vertice dei Popoli della terra, movimenti indigeni che si riuniranno nella Conferenza Globale di Karioka, in un appuntamento “alternativo” che si preannuncia di grandissimo rilievo.
Sono gli eredi di quel primo embrione di movimento globale che vide la sua nascita proprio a Rio, 20 anni fa nelle riunioni del Global Forum e che avrebbe prodotto proposte alternative fondate sulla giustizia ambientale, ed il debito ecologico, addirittura dei Trattati alternativi sulle varie tematiche di negoziato. In Italia era attiva, grazie alla grande intuizione del compianto Alex Langer, la Campagna Nord-Sud, Sopravvivenza dei Popoli, Biosfera, Debito, una rete nazionale ed internazionale di movimenti, ONG e realtà impegnate nei temi dello sviluppo, i diritti dei popoli, l’ambiente.
Da allora proprio l’America Latina è diventata laboratorio di approcci alternativi che mettessero in pratica il concetto di debito ecologico, e lo articolassero attraverso i principi del diritto, (ad esempio i diritti della Madre Terra) e la “buona vita” o Buen Vivir, recepiti nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia. Sia in America Latina, che in Asia i movimenti che si occupavano di debito estero quali la campagna Jubilee South, hanno abbracciato i temi del debito ecologico e della giustizia climatica, consci dell’urgenza di affrontare in maniera radicale gli effetti devastanti della triplice crisi, e rifondare sui temi ambientali e dei beni comuni, la domanda che da sempre si poneva chi chiedeva la cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo: “quien debe a quien? Chi deve a chi”?
Saranno proprio questi i pilastri intorno ai quali si muoveranno le iniziative dei movimenti sociali globali a Rio: beni comuni, giustizia climatica, restituzione del debito ecologico sullo sfondo di una crisi che può paradossalmente aprire la strada a un futuro migliore, costruito dal basso, con pratiche e proposte fondate sulla giustizia e l’equità sui diritti ed il diritto dei popoli e della natura.