Sretan put
A Sarajevo, sul ponte Vrbanja, c’è una targa con i nomi di due giovani ragazze, Suada e Olga, uccise 20 anni fa, durante una manifestazione pacifica a Sarajevo contro la guerra. Era l’inizio dell’assedio, aprile 1992. Il giorno è controverso (5 o 6) perché nella guerra, si sa, la verità non è mai così evidente. Sullo stesso ponte verrà ucciso, il 3 ottobre 1993, anche Gabriele Moreno Locatelli, volontario dei Beati Costruttori di pace.
In questi giorni non mancano servizi televisivi, articoli e ‘celebrazioni’ dell’anniversario dell’assedio a Sarajevo. Basta cercare su internet e si trovano numeri e commenti. Quanti morti, quanti feriti, quanti profughi. Analisi socio politiche, ecc. Tutte cose giuste, doverose, certo.
Io confesso che faccio fatica, mi diventa difficile raccontare, come se fossero fatti esterni. Come dire: da spettatore. Si, perché vent’anni fa il mondo è stato spettatore silenzioso e in parte complice. Ci sarà forse occasione in questo anno di approfondire meglio alcune cose.
Oggi vorrei solo ricordare le tante persone, gli amici, i volti, anche chi non c’è più. E cercare di ricordare cosa vuol dire vivere un assedio, non avere luce, gas, acqua, telefono, i vetri alle finestre…
Sretan put (buon viaggio) si legge su qualche cartello lungo le strade della Bosnia. Si, buon viaggio! Perché chi sta fermo, immobile, non può capire.
È ferma e non può capire una certa informazione fatta comodamente dietro la scrivania o in una stanza d’albergo. Come non ricordare allora i tanti giornalisti uccisi a Sarajevo e in Bosnia. Si sono messi in cammino e hanno pagato. Come chi si metteva in cammino, uscendo di casa, per prendere l’acqua o il pane, e veniva colpito da una granata. Una delle migliaia lanciate sulla città. Forse andrebbe anche detto, per non versare lacrime di coccodrillo, che alcune - le ho viste con i miei occhi - erano Made in Italy.
È ferma e non può capire una certa politica che non è interessata alla vita delle persone vittime della guerra. Prima che la guerra arrivasse a Sarajevo, di fronte alle nostre preoccupazioni, qualche autorevole politico italiano aveva commentato “I soliti pacifisti che vedono guerra ovunque, tre giorni di tempo e questa guerra è finita”. Era il settembre 1991, forse qualcosa si poteva ancora fare.
Per non stare a guardare, matura poi l’idea della marcia dei 500 - dicembre 1992, a Sarajevo ancora sotto assedio - quella con don Tonino. In quell’occasione si diceva: se i responsabili chiamati a decidere per gli accordi di pace si incontrassero qui a Sarajevo, al freddo, senza cibo, acqua, luce, ecc… in due ore di tempo troverebbero un accordo. Si, perché proverebbero sulla propria pelle cosa vuol dire vivere a Sarajevo sotto assedio. Ma la prudenza consigliava di stare lontani. La stessa cosa che hanno consigliato a Giovanni Paolo II, che voleva andare a Sarajevo ad ogni costo, ma… nonostante la papa-mobile fosse già a Sarajevo, lo hanno obbligato a restare a casa, a non mettersi in cammino.
Tra l’altro, in questi giorni di Pasqua, risuona ancora più forte la celebrazione del grande cammino di liberazione del popolo d’Israele verso la terra promessa.
E oggi? A ben guardare, forse, dopo 20 anni non è cambiato molto: sappiamo poco di come vive la gente a Sarajevo; in compenso ora come allora la politica si occupa d’altro e molta informazione è concentrata sul campionato di calcio, che oggi come 20 anni fa, vede il Milan candidato favorito per lo scudetto. Quanto basta per non parlare d’altro. Quasi un invito a star fermi, a non agitarsi più di tanto. Al limite si può guardare qualcosa in Tv, da osservatori. Niente di nuovo.
Forse due parole di scuse le dobbiamo alla gente di Sarajevo, anche se in ritardo di 20 anni.
Così come è doveroso ricordare tutte le persone che hanno continuato a camminare in quella città “Non cattolica, non santa, ma martire”. Penso ai due Vescovi Vinko Puljic (nominato cardinale durante la guerra) e Pero Sudar: due pastori rimasti sempre con la loro gente durante tutto il tempo della guerra. Un esempio per tutti, fuori e dentro la chiesa, soprattutto di questi tempi.
E a proposito di sretan put, mi piace ricordare un gruppo di studenti di una scuola (non faccio il nome ma è un fatto vero) che diversi anni fa hanno voluto andare a Sarajevo in bicicletta, durante l’estate. Abbiamo preparato loro un viaggio con alcune tappe molto dure, in mezzo alle case ancora distrutte dalla guerra. E poi, dopo una giornata in sella, sudati e stanchi, l’arrivo in un posto senza acqua e senza luce. E una ragazza cadendo dalla bici si è pure rotta un braccio. Beh, per farla breve, da quel viaggio è nato un gruppo di studenti legati alla Bosnia che continua ancora oggi. Sretan put Sarajevo.