La strada verso Rio+20
Si è tenuta a fine maggio a New York l’ultima sessione di negoziato informale in preparazione della Conferenza Rio+20, convocata d’urgenza per tentare di risolvere i punti critici sui quali nel corso delle sessioni precedenti si era espresso il massimo disaccordo tra i vari governi. I temi chiave sui quali non c’è ancora accordo a meno di una settimana dall’inizio dell’ultima tornata negoziale a Rio sono quelli sui quali era stata di fatto lanciata la proposta di Rio+20. Ovvero la promozione e il sostegno alla Green Economy, il rafforzamento dell’assetto istituzionale internazionale per il maggior coordinamento delle politiche ambientali, il lancio dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da affiancare agli obiettivi di sviluppo del Millennio in settori quali il cibo, l’acqua, l’energia. Le questioni “paradigmatiche” che attraversano tutte le tematiche oggetto di negoziato, ovvero l’equità, i diritti umani, la riforma delle politiche commerciali e finanziarie, il ruolo del settore privato e la sua responsabilizzazione, le responsabilità eguali ma differenziate (uno dei principi di Rio92) l’impegno ad aumentare i fondi di cooperazione internazionale, restano in sospeso e pesano come un macigno non solo sul negoziato di Rio ma su tutto il futuro della cosiddetta “governance” ambientale globale.
Ci troviamo di fronte ad un caso evidente di jetlag storico, che sembra aver colpito tutti i governi, da quelli dei cosiddetti paesi ricchi a quelli dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, Cina in testa, che tentano di riconfigurare un proprio ruolo globale utilizzando il negoziato internazionale per le proprie prove muscolari, con obiettivi che hanno poco o nulla a che vedere con il vero oggetto del contendere. È la crisi con tutte le sue conformazioni, (ambientale, economico-finanziaria, della “governance”, alimentare, climatica) che incombe sul negoziato, frenandone le possibilità piuttosto che aprire la porta a scelte radicali ed innovative. È la crisi dei Paesi del cosiddetto Nord, degli ex G8, che si confronta con il dinamismo dei paesi di quello che venti anni fa era il Sud del Pianeta, una narrativa che esclude gran parte della popolazione mondiale che oggi vive in condizioni di grande povertà e negazione di diritti.
Gli unici punti sui quali i delegati hanno trovato accordo sono la semplice reiterazione di principi ormai acquisiti, e dichiarazioni di presa d’atto senza alcun carattere vincolante o programmatico. Dichiarazioni di principio alle quali non seguono impegni chiari rispetto ai temi “pilastro” quelli cioè che marcano la volontà politica o meno di avviarsi verso un vero cambio di paradigma. Quindi, non si è trovato accordo sui temi delle responsabilità comuni ma differenziate (in una parola sull’equità ed il riconoscimento del debito ecologico) sulla necessità o meno di affrontare il tema dei modelli produttivi e di consumo insostenibili (il tema della crescita), il diritto al cibo e la promozione del rispetto dei diritti umani. Anche se – grazie agli sforzi delle organizzazioni non governative e movimenti sociali – il diritto all’acqua rientra nel testo, mentre il diritto al cibo resta ancora tra parentesi (ovvero ancora da concordare).
Guardando poi alla questione degli “strumenti” di attuazione, ovvero la cooperazione allo sviluppo, la riforma dei termini di scambio e delle politiche commerciali e l’accesso alle tecnologie, il quadro rimane del tutto irrisolto. Nessun impegno ancora per l’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo, con i Paesi “sviluppati” che ribadiscono che Rio+20 non è una conferenza nella quale prendere impegni finanziari, contrariamente a quanto affermato dai G77, mentre il tema del libero accesso alle tecnologie è minato dalla questione spinosa dei diritti di proprietà intellettuale.
Altro punto assai controverso riguarda il ruolo delle imprese del settore privato. In questo caso le posizioni contrapposte vedono Cina e G77 contrarie ad ogni forma di vincolo a livello internazionale, riaffermando invece la centralità delle legislazioni nazionali, l’UE che propone uno strumento di responsabilizzazione fondato su meccanismi di informazione e rendicontazione sulle pratiche sostenibili, ed una riaffermazione del ruolo dell’ONU e del Global Compact. Nulla a che vedere con l’ipotesi di un accordo globale vincolante al quale stanno lavorando molti movimenti sociali che si riuniranno al Summit alternativo dei Popoli.
E veniamo al tema della Green Economy, o Green Economies, o meglio ancora “conversione ecologica dell’economia”. Quali dovranno essere le condizioni necessarie affinché il settore privato possa svolgere un ruolo positivo nella conversione ecologica dell’economia e non invece utilizzare il pretesto della “Green Economy per riaffermare false soluzioni o espandere i propri interessi in settori quali i servizi ambientali e la finanziarizzazione della natura? Insomma una nuova forma di “capitalismo verde”, ipotesi contro la quale si è scagliato con forza il blocco dei G77 e Cina che invece invocano il riconoscimento de principio dell’equità? Eppoi la Green Economy dovrà essere una strategia globale o solo una condizionalità da imporre ai paesi emergenti per accedere a fondi e tecnologia? Cosa dovrebbe fare questa Green Economy, e come integrare pienamente i costi sociali e ambientali? Tutti punti sui quali il negoziato è ancora in alto mare.
Stesso tenore nel negoziato sull’architettura istituzionale globale volta ad assicurare l’integrazione dei tre “pilastri”, (ambientale, sociale e economico) dello sviluppo sostenibile. Se da una parte è stato riaffermato il ruolo centrale del sistema ONU non ci è spinti al punto di prendere una decisione sul tipo di istituzione o assetto necessario per il dopo-Rio. C’è chi propone un forum politico di alto livello che possa sostituire la Commissione per lo sviluppo Sostenibile, chi chieder un Consiglio ONU sull’Ambiente, chi il rafforzamento dell’UNEP. Né si è trovato accordo sul ruolo che tale organismo dovrà svolgere, se di monitoraggio dell’attuazione degli impegni o solo luogo di scambio di esperienze, se debba essere solo un’ istanza di coordinamento o anche di facilitazione della concessione di risorse finanziarie.
Insomma, il quadro lascia ad intendere due ipotesi: o il fallimento totale della Conferenza oppure un risultato di basso livello nel quale i paesi si impegnano ad aprire un processo per la definizione di impegni certi e nel frattempo si lanceranno iniziative di partenariato ad alto impatto mediatico, tra paesi, imprese ed organismi internazionali. In ogni caso un risultato certamente non all’altezza delle sfide globali, né dello slancio storico dato dalla Conferenza di Rio del 1992 che nonostante tutto, partorì due Convenzioni globali (sul Clima e la Biodiversità), l’agenda 21, la Carta della Terra e la Dichiarazione di Rio. E segnò l’avvento dei movimenti e della società civile globale che si riunirono allora nel global Forum e che nei prossimi giorni s’ incontreranno nel Summit dei Popoli per declinare attraverso piattaforme comuni e la condivisione di pratiche la vera alternativa per un’economia giusta, la giustizia ambientale, i beni comuni, i diritti umani e della Terra.
Soggetti che prenderanno l’iniziativa di fronte all’ incapacità se non all’ evidente volontà politica da parte dei governi di impegnarsi per un’ economia capace di futuro. Giacché, come ebbe a dire Gustavo Esteva, sociologo che da anni lavora nelle esperienze di municipi autonomi a Oaxaca ed in Chiapas “Costruire un mondo nuovo è fattibile, non è una proposta romantica, ma interamente pragmatica” . Toccherà a noi farlo.