Ministeri e sacerdozio

L’ordinazione delle donne: un ostacolo nel cammino ecumenico?
Serena Noceti (Docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale, membro del direttivo del Coordinamento delle Teologhe Italiane)

A conclusione della prima assemblea mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese tenutasi ad Amsterdam nel 1948, veniva segnalata tra le questioni aperte, intorno alle quali si registravano differenze sostanziali tra le Chiese, anche l’ordinazione delle donne: “Le Chiese non concordano sull’importante questione dell’ammissione delle donne alla pienezza del ministero. Alcune Chiese non sono preparate per ragioni teologiche a prendere in considerazione il problema dell’ordinazione delle donne; altre non hanno obiezioni di principio, ma vi vedono difficoltà amministrative o sociali; altre ancora ammettono una partecipazione parziale, ma non integrale, all’ufficio ministeriale; in altre le donne sono eleggibili per l’esercizio di tutti gli uffici della Chiesa”. Queste parole scritte nel 1948 appaiono ancora attuali a chiunque voglia descrivere la situazione del confronto ecumenico su questa tematica. È cresciuto, infatti, il numero delle Chiese che ammettono donne al ministero pastorale e più volte la questione è stata oggetto di confronti teologici approfonditi, ma indubbiamente anche oggi l’ordinazione ministeriale delle donne rappresenta un nodo delicato per le relazioni interne alle comunioni di Chiese e per il movimento ecumenico nel suo insieme; è “una questione controversa e causa di sofferenza tra le Chiese”; “un serio ostacolo alla piena comunione”. L’opzione di alcuni per una inclusività di genere rischia, infatti, di segnare un’esclusione reciproca “di fatto” dal dialogo nel caso di alcune Chiese, come si evince chiaramente da alcuni dialoghi bilaterali, in particolare quelli che vedono protagonisti da un lato la comunione anglicana e i veterocattolici, con la scelta maturata progressivamente di ordinare donne diacono, presbitero, vescovo, e dall’altro la Chiesa cattolica-romana e le Chiese ortodosse, con la loro ribadita opposizione all’ordinazione sacerdotale femminile. Fa da spartiacque nei dibattiti il 1994, anno dell’ordinazione delle prime donne presbitero nella Chiesa di Inghilterra, Chiesa madre dell’anglicanesimo, e anno di pubblicazione della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis, con cui viene definita, in modo irriformabile, la posizione cattolica-romana.

Uguaglianza
Le Chiese che hanno optato per l’ordinazione ministeriale di donne e uomini affermano che non vi sono ragioni bibliche o teologiche adducibili contro l’ordinazione delle donne e leggono come “sviluppo legittimo del ministero tradizionale della Chiesa e risposta necessaria e profetica alle nuove situazioni” e come “necessaria conseguenza della fedeltà al Vangelo” in un contesto culturale e sociale che vede le donne protagoniste attive a tutti i livelli (Chiesa luterana del Canada). Il richiamo scritturistico fondativo va da un lato all’atteggiamento mostrato da Gesù verso le donne, alla sua prassi di liberazione radicalmente “altra” rispetto agli usi giudaici del tempo, e dall’altro alla configurazione delle prime comunità neotestamentarie che affermavano il valore della differenza di genere in un contesto di eguaglianza in dignità (Gal 3,28), con spazi di azione e leadership per le donne. Si ritiene necessario, in particolare nel contesto di reale eguaglianza in soggettualità di uomini e donne che la cultura e la legislazione occidentali hanno sancito, riconoscere l’ordinazione anche delle donne per vivere – anche così – l’uguaglianza fondamentale che il Cristo ha offerto e la novità nella responsabilità condivisa che la chiesa primitiva ha vissuto. Il ministero ordinato ne risulta arricchito dalla reciprocità e dalla creativa interazione uomo-donna, sempre interdipendenti nell’ordine della creazione e della redenzione.

Per soli uomini
L’affermazione conclusiva di Ordinatio Sacerdotalis, a cui i fedeli cattolici devono attenersi, definisce la posizione cattolica attuale: “Pertanto al fine di togliere ogni dubbio su una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli”. L’ordinazione sacerdotale (ai gradi cioè del presbiterato e dell’episcopato) è da riservarsi per la Chiesa cattolica romana, come anche per le Chiese ortodosse, ai soli maschi. La motivazione fondamentale rinvia alla scelta fatta da Gesù e mantenuta ininterrottamente dalla Chiesa; vengono perciò abbandonate due altre motivazioni presenti nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Inter insigniores (1976), frequentemente citate ancora oggi da alcuni teologi cattolici, il fatto cioè che alla Cena fossero presenti solo maschi e la necessità di una “rassomiglianza naturale tra Cristo e il suo ministro”, che nella liturgia agisce in persona Christi capitis, e che verrebbe meno se “il ruolo di Cristo non fosse tenuto da un uomo”.
Le Chiese ortodosse ribadiscono la loro posizione sia richiamando il fatto che l’ordinazione delle donne non rispecchia l’ordine della creazione, dal momento che la differenziazione sessuale si esplica anche in una distinzione di ruoli sociali, sia ribadendo “iconicità di Cristo” del sacerdote e il parallelismo tra Adamo-Cristo ed Eva-Maria, sia infine confermando la “pratica, bimillenaria e saldamente stabilita, della Chiesa”. Come affermano la Dichiarazione di Atene (1978) e il Rapporto di Antelias (2001): “Le donne non possono accedere al sacerdozio. L’ordinazione sacerdotale è un’innovazione che non trova alcun appoggio nella tradizione sacra […] fin dal tempo di Cristo e degli apostoli la Chiesa ordina al sacerdozio solamente uomini. […] l’ordinazione delle donne al sacerdozio non è parte della costante creatività bensì una violazione della fede apostolica e dell’ordine ecclesiale”; “l’ordinazione delle donne al ministero sacerdotale è inaccettabile sulla base dell’insegnamento delle Sacre Scritture”.
nodi teologici
L’esame delle motivazioni che sostengono chi ha optato per l’ordinazione ministeriale di donne e uomini e quelle di chi, invece, propende per mantenere la prassi secolare di ordinazione di soli uomini permette di delineare quali siano le questioni teologiche in gioco: da una parte è evidente che si danno interpretazioni differenti della ragione teologica dell’esistenza del ministero e della sua funzione per la vita della Chiesa, dall’altra emerge chiaramente una differente infrastruttura concettuale che porta a sviluppare il compito ermeneutico secondo presupposti e criteri diversi. È differente la modalità di approccio alle Scritture, diversi il ruolo riconosciuto alla tradizione e la modalità di comprenderne l’evoluzione, dissimile la valutazione dei fattori di trasformazione (teologici e socio-politici e culturali) che hanno influito nella determinazione delle figure ministeriali nella storia, discorde la comprensione di quanto essi possano incidere oggi per nuovi processi interpretativi della fede apostolica ricevuta. Per le Chiese della Riforma, il sentire culturale e sociale attuale, le necessità ecclesiali, le richieste formulate da molte donne di poter partecipare come ministri ordinati alla vita della Chiesa, sono interpretate come sollecitazioni dello Spirito a una rivisitazione del volto delle Chiese, possibile e necessaria per lo stesso processo di ermeneutica delle Scritture: “L’ordinazione [delle donne] è percepita come una grazia di Dio fatta alla Chiesa, una proclamazione del Vangelo circa il pieno coinvolgimento di tutte le persone nell’opera redentrice di Cristo e una fonte di nuovi approcci alla pastorale e al governo della Chiesa”; “il sacerdozio delle donne è stato realmente una benedizione e ha arricchito la nostra vita comune” (Sinodo generale della Chiesa anglicana in Canada, 1986). Per le Chiese cattolica romana e ortodosse la fedeltà al Vangelo comporta mantenere la prassi secolare di ordinazione di soli uomini, dal momento che la scelta non può essere correlata a richieste individuali, né ricondotta a rivendicazione o preclusione di ruoli e funzioni per le donne.

Una rilettura critica
La questione del ministero pastorale e delle sue forme di esercizio costituisce uno dei temi più spinosi e dibattuti nel confronto ecumenico; nel caso dell’ordinazione delle donne la strada appare ancora più segnata da ostacoli e resistenze al dialogo. D’altra parte, però, i diversi modelli di riconoscimento della ministerialità delle donne segnano profondamente il volto delle Chiese, sia sul piano della prassi pastorale quotidiana sia su quello simbolico dell’immagine di Chiesa offerta e la questione non può essere troppo facilmente bypassata.
Ancora nel 1991, l’assemblea del WCC di Canberra (1991) concludeva con estrema decisione: “Affermiamo che la partecipazione delle donne ai ministeri ordinati deve continuare a far parte dell’agenda ecumenica”, ma il 1994 rappresenta effettivamente una cesura nel dialogo: le posizioni della Chiesa cattolica e della comunione anglicana sono state definite in modo inequivocabile e la stigmatizzazione di scelte fatte unilateralmente, che precluderebbero sviluppi futuri verso l’unità visibile, sono oggi semplicemente giustapposte ai richiami al valore del ministero pastorale delle donne nell’attuale contesto sociale. Gli appelli a una ripresa della ricerca e della discussione “su un problema non secondario o sacrificabile negli sforzi per l’unità della Chiesa, [tema che deve essere] tenuto presente da tutte le Chiese di Gesù Cristo” (dialogo tra Discepoli di Cristo e Riformati, 1987) rimangono ormai inascoltati.
È possibile perciò ipotizzare qualche passo ulteriore? In quale direzione orientare la ricerca e il confronto? È ancora possibile giungere alla comunione nel riconoscimento reciproco di ecclesialità tra Chiese che sul sacerdozio femminile hanno fatto scelte diverse?
In primo luogo, mi sembra importante riportare la riflessione sulla teologia del ministero ordinato tout court, sui presupposti teoretici su cui viene articolata la posizione delle diverse Chiese: il modo in cui viene pensato il rapporto tra ministro e comunità, tra sacerdozio di Cristo, sacerdozio comune dei cristiani e funzione sacerdotale del ministro ordinato, tra natura del ministero ordinato e configurazioni assunte (ad esempio, il modo di pensare la strutturazione tripartita del ministero e le forme di esercizio dell’episkopè nella Chiesa). In questa prospettiva, per la Chiesa cattolica romana appare essenziale mantenere aperto il confronto con la comunione anglicana e con la Federazione Luterana Mondiale; con la prima si dà una sostanziale consonanza teologica sul settenario sacramentale e sul ministero ordinato, con la seconda si mira a raccogliere i frutti dell’approfondito quarantennale dialogo dedicato ai temi dell’ecclesiologia e dell’apostolicità. Questo permette di cogliere come si articolino per pensare il ministero fondazione cristologica, determinante pneumatologica, orientamento ecclesiologico.
Da parte cattolica per quanto riguarda le donne, rimane aperta la via dell’ordinazione diaconale destinata “non ad sacerdotium sed ad ministerium” (LG 29); Ordinatio sacerdotalis afferma, infatti, impossibile conferire alle donne una “ordinatio sacerdotalis”, cioè secondo l’ordine dell’episcopato e del presbiterato, ma non menziona il diaconato. La presenza di donne diacono/diaconesse è ampiamente attestata nell’antichità; pensare all’ordinazione diaconale, come richiamato in alcuni dialoghi (dialogo luterano-cattolico in Canada; il dialogo anglicano-cattolico in USA) rappresenta un passo possibile per riaprire realmente la ricerca sul ministero ordinato alle donne. Accettare di rimanere nel confronto ecumenico sullo spinoso tema dell’ordinazione delle donne in questa prospettiva può costituire la possibilità di una feconda – anche se difficile – maturazione di Chiesa e un segno di speranza per l’inverno ecumenico che stiamo attraversando.

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