Comunione e pluralismo possibili
Quali le prospettive possibili per un loro superamento e per una ripresa feconda del dialogo ecumenico?
È ormai lontana nel tempo, ma non inattuale, la denuncia del VI rapporto del Gruppo misto di lavoro fra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese (1990), che indicava nelle questioni etiche un nuovo fronte di divisone fra le Chiese cristiane e invitava a un coraggioso e più competente dialogo sui temi morali.
Il dialogo, soprattutto a livello bilaterale, è stato condotto particolarmente negli anni Novanta (Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha elaborato un processo di studio dal nome “Ecclesiology and Ethics”, suddiviso in documenti, fra il 1990 e il 1996; meritano di essere ricordati anche il dialogo fra anglicani e cattolici “Vivere in Cristo. La morale, la comunione e la Chiesa”, 1994, e quello fra cattolici e protestanti francesi “Scelte etiche e comunione ecclesiale”, 1992, NdA) e ha soprattutto cercato di stabilire il corretto rapporto fra comunione ecclesiale e pluralismo morale. Due fatti risultano evidenti: da una parte il movimento ecumenico non ha mai cessato di proporsi la sua meta costitutiva, quella dell’unità visibile delle Chiese nella Chiesa una (certamente da non intendere come uniformità strutturale o assunzione di uno dei modelli di Chiesa attualmente esistenti, NdA), come confessa il credo, dall’altra si è dovuto prendere atto del progressivo crescere del pluralismo morale fra i cristiani. Questo suscita problemi e pone interrogativi, soprattutto da quando non si tratta più soltanto di un pluralismo di fatto, nelle opzioni dei singoli battezzati rispetto alle indicazioni delle loro tradizioni e autorità ufficiali, ma di diritto, sostenuto da un’evoluzione (per qualcuno un’involuzione) delle dottrine morali delle Chiese.
Avvicinamenti e contrapposizioni
Se andiamo indietro nel tempo, alle origini delle divisioni fra le Chiese, ci accorgiamo che nei diversi momenti di frattura fra Oriente e Occidente e fra cattolicesimo e protestantesimo, le questioni morali non erano all’ordine del giorno. I cristiani condividevano una morale comune, che corrispondeva alla morale convenzionale della civiltà europea del loro tempo, eventualmente supportata da motivazioni teologiche. Se vi erano delle differenze in campo morale, queste riguardavano, per lo più, i temi dell’etica fondamentale, non tanto l’applicazione delle norme morali. Il XX secolo ha visto un progresso nella comprensione delle comuni radici dell’agire etico cristiano. La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999) sottoscritta dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese luterane e metodiste, infatti, precisa: “Insieme confessiamo che le buone opere — una vita cristiana nella fede, nella speranza e nell’amore — sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti. Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti. Tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d’amore” (la traduzione italiana è pubblicata nell’opera “Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolico-luterana, commento e dibattito teologico”, a cura di A. Maffeis, Queriniana, Brescia 2000, NdA). Ma lo stesso XX secolo ha visto anche una progressiva differenziazione, se non contrapposizione, nei temi dell’etica applicata.
In realtà una precisazione meriterebbe di essere fatta anche per quanto riguarda i temi etici controversi: se distinguiamo l’etica sociale e quella individuale, in particolare i temi della sessualità, procreazione e bioetica, ci accorgiamo che sui primi le differenti posizioni delle Chiese non sono alternative ma piuttosto si integrano, come dimostrano le prese di posizioni convergenti su temi come l’economia o la tutela dell’ambiente (merita di essere ricordato, fra tutti, il lungo Processo conciliare “Pace, giustizia e salvaguardia del creato”, che ebbe il suo apice nella convocazione ecumenica di Seoul nel 1990. Cfr. S. Morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, EDB, Bologna 2008, NdA).
Per altri temi, invece, le differenze si sono radicalizzate in vere e proprie contrapposizioni pratiche e dottrinali. In tal ultimo senso, può essere esemplare quanto accaduto alla conclusione dell’assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), quando un passaggio del secondo paragrafo del documento finale, a causa della modalità di inserimento degli emendamenti e di votazione per acclamazione, è risultato divergente nelle diverse traduzioni del messaggio, riportando alcune solo l’espressione: “Riteniamo che ogni essere umano sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1, 27) e meriti lo stesso grado di rispetto e amore nonostante le differenze di credenza, cultura, età, genere, origine etnica” aggiungendo altre, “dall’inizio della vita alla morte naturale”, o “ dal concepimento alla morte naturale”. La prima espressione risultava accettabile dai delegati protestanti, mentre l’aggiunta sembrava sposare più direttamente il punto di vista etico della Chiesa cattolica. Ciò ha impedito per oltre due settimane la diffusione del testo ufficiale del messaggio che, infine, è stato pubblicato con la soppressione della frase. Al di là degli aspetti tecnico-organizzativi, la difficoltà di concordare il testo finale su questo specifico aspetto indica la delicatezza dei temi etici per il cammino ecumenico e le difficoltà che il percorso di unità dei cristiani europei si trova ancora a dover percorrere.
Conflitto interpretativo
Un’asimmetria, quindi, tra posizioni convergenti e differenze più radicali merita di essere sottolineata: perché proprio su temi etici le Chiese si dividono? Quale peculiarità hanno? Non esiste ovviamente una risposta univoca: alcuni diranno che la contrapposizione dipende da una diversa sensibilità verso ciò che è realmente fondamentale in ambito etico (il valore nonnegoziabile della vita e il rispetto della legge morale naturale), altri che le Chiese più conservatrici in ambito di etica sessuale-procreativa-medica desiderano esercitare un controllo sulla coscienza dei singoli credenti, impedendo di fatto la costituzione di coscienze moralmente responsabili; alcuni accuseranno gli altri di relativismo e di adesione poco evangelica allo spirito dei tempi, altri accuseranno gli uni di verticismo, di autoritarismo, di incapacità di confrontarsi con la realtà del popolo cristiano.
Il conflitto delle interpretazioni può, quindi, sembrare senza speranza. Come può l’etica teologica fornire uno stimolo positivo al superamento dell’inverno ecumenico? Vi sono, a questo fine, diverse strade da battere:
- collocare il vissuto etico nella sua corretta posizione all’interno della fede cristiana; dato che esso, come abbiamo visto, è una conseguenza della giustificazione che l’essere umano riceve da Dio e una riposta al dono della grazia, quindi una dimensione della vita cristiana che deriva dall’opzione fondamentale della fede;
- recepire i risultati dei dialoghi e quindi valorizzare la convergenza nei temi dell’etica fondamentale. L’etica cristiana, cioè, ha bisogno di essere illuminata sia dal Vangelo che dall’esperienza umana, come insegna anche il Concilio Vaticano II (GS 46), dato che il suo scopo è quello di promuovere le virtù cristiane, piuttosto che limitarsi a proibizioni e comandi e che essa si costituisce in un delicato dialogo fra coscienza individuale illuminata dalla fede e coscienza collettiva ecclesiale, superando gli estremi del conformismo e dell’individualismo. Ascoltiamo ancora la voce del Concilio: “Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16).
- Comprendere che le divergenze riguardano più l’applicazione, quindi il giudizio morale sui singoli casi, che le norme morali nella loro universalità;
- affrontare analiticamente le situazioni di divergenza per cogliere con precisione dove essa effettivamente si situa.
Infine, vi sono due ulteriori condizioni per iniziare il cammino verso il superamento delle contrapposizioni in campo morale;
- superare il rischio che le Chiese facciano degli orientamenti morali che propongono una modalità per valorizzare la loro presenza nella società, rispetto alla perdita di influenza sociale che sperimentano nelle società secolarizzate, riducendo l’etica a uno strumento identitario;
- saper distinguere fra pluralismo e relativismo. Il relativismo, inteso nel suo senso radicale, corrisponde al rifiuto di un ordine morale oggettivo e alla riduzione del giudizio morale a conseguenza di una situazione data preesistente, come gli orientamenti individuali, i condizionamenti storico-culturali, le opzioni politiche, le leggi economiche ecc.. Il pluralismo riconosce, invece, che la scoperta e la realizzazione dei valori morali non è esaurita da un’unica (e universale) presa di posizione morale: una pluralità di opzioni diventa necessaria per rispondere alla inesauribilità dei valori, oltre che per consentire la loro effettiva incarnazione nella vicenda degli esseri umani. Tale pluralismo sarà, quindi, convergente sui valori e complementare nelle scelte concrete.
Questo implica anche, inevitabilmente, una messa in discussione degli attuali risultati delle posizioni delle singole chiese in campo etico: solo da un rinnovato dialogo che sappia prendere sul serio le diverse e divergenti posizioni per aprirle al nuovo, sia in termini concettuali che pratici, sarà possibile elaborare una rinnovata etica cristiana, veramente ecumenica e significativa anche per il mondo globale. Nessuna Chiesa è esentata da questa esigenza: la semplice conservazione della propria dottrina morale, per quanto illustre e veneranda essa sia, non può che portare al blocco non solo del dialogo fra le chiese, ma della chiesa con le società in cui vive. Se l’etica è un fatto laico, che come tale riguarda l’umanità nel suo complesso e il suo destino, a questa etica laica le chiese sono chiamate a contribuire con il loro insostituibile carisma, che sta nell’annuncio della grazia liberante di Dio che rende possibile all’essere umano di agire in conformità alle richieste dell’Evangelo, e quindi in modo degno della propria umanità.