Pluralisti e dialogici
Che il Vaticano II abbia acceso nella Chiesa romana una viva passione ecumenica, è risaputo. Un clima rinnovato, un nuovo interesse biblico, la decisa apertura al mondo e ai suoi dibattiti: questi e altri fattori hanno contribuito a inaugurare una delle più feconde stagioni del confronto tra le Chiese. Decine di dialoghi bilaterali, un fervore di iniziative alla base, il crescere di una nuova sensibilità. Molto cammino restava da fare, lo sapevano tutti, ma la prospettiva di una forma di unità nella diversità appariva concreta: forse non vicinissima, ma reale.
All’inizio del XXI secolo, il quadro è molto diverso. Roma dichiara apertamente che solo il dialogo con l’Ortodossia risulta, al momento, effettivamente promettente. Con le Chiese della Riforma, il confronto è ostacolato, si dice, da visioni diverse, e anche incompatibili, della Chiesa e, di conseguenza, dell’unità cristiana. La comunione ecclesiale tra le Chiese protestanti europee, sancita dalla Concordia di Leuenberg (di fatto, un esempio realizzato di “unità nella diversità”, modello di altre dichiarazioni analoghe in Europa e nel mondo) viene bollata da Roma come fondata su di un “consenso minimale”: esso riguarda, infatti, “soltanto” la predicazione e i sacramenti e non richiede una sola e unica forma di ministero. Ma il ministero (la propria concezione del ministero, episcopale e papale), è per il cattolicesimo la condizione sine qua non di qualsiasi forma di unità. Chi la pensa diversamente, come si sa, “non è Chiesa in senso proprio”.
Che cosa ha determinato il gelo iniziato verso la metà degli anni Ottanta?
I fattori sono numerosi, mi limito a menzionarne alcuni.
Una delle ragioni dell’interesse postconciliare per il dialogo ecumenico, specie con il protestantesimo, era il desiderio cattolico di aprirsi alla modernità, dopo le contrapposizioni esacerbatesi nel secolo che va dal 1850 al 1950. Il pontificato di Giovanni Paolo II, accompagnato teologicamente da colui che sarebbe diventato il suo successore, ha evidenziato un atteggiamento assai critico nei confronti della modernità secolare, percepita come disgregatrice. È evidente che anche in questa analisi vi sono elementi di verità. In ogni caso il protestantesimo è compreso come incline ad arrendersi al trend secolarista. Al contrario il mondo ortodosso, dopo il 1989, vive un momento di forte ripresa identitaria. Ciò, unito ad alcune obiettive convergenze ecclesiologiche, spinge Roma a privilegiare il dialogo con l’Oriente. La prospettiva, assai chiara, è quella di un’alleanza, anche politica, contro la secolarizzazione che si ritiene dilagante. Roma afferma anche (non saprei dire se credendolo veramente) che sussistano prospettive a medio termine di consenso, con gli ortodossi, sulla questione del papato. Anche se questo non fosse il caso (e personalmente ritengo non lo sia), l’ecumenismo “a due velocità” (lento e quasi bloccato con le Chiese della Riforma, spedito con l’Ortodossia) è ormai un fatto conclamato.
Il Vaticano, inoltre, è convinto che il protestantesimo sia avviato all’irrilevanza pubblica: a causa della diminuzione numerica e, soprattutto, della propria autosecolarizzazione, sia etica sia teologica. Esso diviene, quindi, poco interessante dal punto di vista della politica ecclesiastica. Più promettente, paradossalmente, il dialogo con il mondo evangelicale. Le difficoltà sul piano ecclesiale, infatti, paiono compensate dal consenso etico, dal tradizionalismo teologico e, anche, da un rilancio, da parte romana, dello scetticismo nei confronti della critica biblica. L’opera del Papa su Gesù è indicativa al riguardo; e un alto esponente vaticano, in un incontro al quale ho partecipato, ironizzava (con un gioco di parole in tedesco: più hysterisch-kritisch, egli affermava, che historish-kritisch) su uno stile teologico esposto, a suo parere, a degenerazioni nevrotiche.
Naturalmente questo orientamento delle gerarchie romane procede di pari passo con un ricompattamento interno, che anzi costitui-sce l’interesse principale. Il cattolicesimo resta una realtà estremamente variegata, questo è evidente. Lo è altrettanto il fatto che le voci dissonanti rispetto alla linea delle gerarchie vaticane vengono progressivamente isolate. Quando, da parte evangelica, si esprime tale constatazione, il cattolicesimo, chiamiamolo così, “dialogante”, reagisce con irritazione, accusando gli stessi protestanti di essere – loro! – subalterni al punto di vista romano e di non apprezzare adeguatamente le magnifiche sorti e progressive del fiorire pluralistico della Chiesa cattolica. Non credo che tale lamento sia costruttivo: la riflessione sul presente e l’elaborazione di prospettive esigono anzitutto onestà intellettuale e disponibilità a non confondere la realtà con le proprie aspirazioni.
In un simile quadro le Chiese evangeliche farebbero bene a prendere sul serio i duri giudizi e le prognosi pessimistiche provenienti dai responsabili vaticani, smettendo di cullarsi nell’illusione che questa o quella concessione, che so, sull’episcopato che alcuni amano definire “storico”, aprirebbe chissà quali prospettive. Roma vuole che si accetti la sua struttura ecclesiale, in toto, papato compreso. Poi, dicono, anche il papato potrà cambiare: per ora, a quanto pare, va bene com’è. Si tratta di una proposta non molto dissimile da ciò che veniva chiamato “ecumenismo del ritorno”: l’appello agli “scismatici”, affinché tornassero tra le braccia della madre romana. Se tale ultimatum appare cristianamente irricevibile, le Chiese evangeliche sono però chiamate a riflettere attentamente su due critiche che costituiscono, a mio parere, il vero contributo ecumenico reso da Roma in questa fase. La prima riguarda il deficit di cattolicità riscontrabile nel protestantesimo: la tendenza, cioè, a procedere in ordine sparso. È importante che il mondo evangelico si doti di strumenti di tipo conciliare, per pregare, pensare, decidere insieme. Se non si può parlare (non piace a molti ambienti luterani, soprattutto scandinavi; ma entusiasma poco, per motivi opposti, anche le Chiese di minoranza) di un sinodo europeo, si pensi a qualcosa d’altro, ma in fretta, perché il tempo stringe. In secondo luogo, l’accusa di autosecolarizzazione deve costituire uno stimolo potente verso una ripresa spirituale. Le Chiese evangeliche hanno ricevuto in dono tesori di vita di preghiera e di meditazione biblica: nella misura in cui sapranno valorizzarli, anche il dialogo ecumenico ne trarrà immensi vantaggi. Ormai i cristiani evangelici appartenenti alle Chiese storiche sono minoranza dappertutto, anche là dove non se ne sono accorti. Ciò può costituire, come oggi si usa affermare, un’opportunità per riscoprire il carattere impegnativo, confessante, della fede evangelica, anzitutto mediante la preghiera e la riflessione biblica: esse soltanto nutrono una presenza sociale non dico “profetica”, ma almeno in grado di testimoniare con serietà.
Quale forma potrà assumere il dialogo ecumenico, nei prossimi decenni? Alcuni ritengono che il tradizionale “ecumenismo del consenso”, basato sulla ricerca di posizioni teologiche condivise, frutto di una mediazione, sia tramontato, sostituito da un “ecumenismo della testimonianza” o “dei profili”: esso sarebbe interessato a un confronto serrato sul piano spirituale, alieno da irenismi a buon mercato e non particolarmente ottimista quanto a prospettive concrete di reciproco riconoscimento tra Chiese diverse. A pensarla così sono sia evangelici, come Wolfgang Huber, sia cattolici, come Walter Kasper. Qualcosa del genere è già in atto, del resto. È chiaro, al di là della retorica bene intenzionata che tutti pratichiamo (“una fraternità crescente sulla base della reciproca chiarezza”, “il coraggioso abbandono di facili scorciatoie” e simili), che si tratta di un ritorno alla situazione di quarantacinque anni fa, con la differenza che, allora, si usciva da un tunnel, animati da grandi speranze, mentre ora di tali speranze occorre elaborare il tramonto. Se, però, l’alternativa è la santa alleanza contro la modernità, secondo il modello cattolico-ortodosso, oppure un’unità organica basata sull’episcopato “storico” e sul papato, in attesa della mitica riforma di quest’ultimo (un’infallibilità “dialogica”? Un primato “pluralista”? Un centralismo “pluricentrico”?), forse è meglio il dialogo tra i “profili”. Se esso ci insegnasse, come è accaduto finora – questo va detto – in misura assai significativa, a vedere i carismi altrui, e a imparare da essi in spirito di conversione, sarebbe comunque moltissimo.