L'avventura del dialogo
Ogni volta che i cristiani si incontrano in spirito fraterno è già un annuncio di unità.
Se volessimo attenerci fino in fondo alla metafora, dovremmo dire che il “come” non dipende da noi: dall’inverno, infatti, non si esce per decisione e forze proprie, ma per naturale evoluzione delle condizioni ambientali, in cui siamo immersi e di cui subiamo gli effetti, ma su cui non abbiamo diretto potere. Se ne concluderebbe che è vano pretendere di affrettare i tempi, e che si può solo attendere con pazienza, confidando nell’immancabile avvento di una nuova primavera.
Ma sappiamo bene che la realtà storica non combacia con la metafora stagionale: inverni e primavere della storia non seguono il ritmo dei fenomeni ciclici e prevedibili, ma appartengono alla sfera della libertà. Il che per un verso ci sottrae a una passiva dipendenza da eventi a noi estranei, restituendoci all’impegno della responsabilità; ma d’altro canto dissolve, se mai ci fosse, l’illusione che prima o poi, in un modo o nell’altro, le cose e i tempi evolvano automaticamente verso il meglio, e alle rigidezze invernali succeda inevitabilmente un risveglio primaverile.
Per un aspetto almeno, tuttavia, la realtà corrisponde alla metafora: la necessità dell’attesa. Un’attesa che, nel caso dell’“inverno ecumenico”, non sarà passiva aspettazione, bensì tensione attiva, ma comunque consapevole della complessità dei fattori e delle condizioni che concorrono a ostacolare o facilitare l’uscita da questa stagione.
Non va dimenticato, infatti, che l’ecumenismo non si muove in un ambito riservato, non segue un percorso a sé stante, ma confluiscono in esso, e da esso nuovamente si irradiano, tutte le correnti della vita cristiana, sì che il suo stato di salute o di malessere riflette lo stato di salute o di malessere dell’intera realtà ecclesiale. Il suo impulso iniziale, la sua via specifica, il suo ultimo approdo è certamente la ricostituzione di una piena unità tra i cristiani divisi, ma il perseguimento di questa meta, se non vuole ridursi a sterile operazione di diplomazia ecclesiastica, comporta un rinnovamento e una purificazione radicali della coscienza e della vita di fede, a livello non solo personale ma anche comunitario (comporta cioè quella che con termine corrente nel linguaggio ecumenico, da restituire al suo più denso ed esigente significato, chiamiamo “conversione”).
Come dice l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint – un documento che la Chiesa cattolica dovrebbe rimeditare con maggior attenzione – l’ecumenismo è “come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo”.
Prima ancora di manifestarsi nei rapporti interconfessionali, un’autentica spiritualità ecumenica si esprime e si verifica nel rapporto con la verità e la parola di Dio. Una verità, appunto, che è parola, cioè non immobile oggetto di un processo intellettuale, non statica formulazione dottrinale, ma fonte e luce creativa che si comunica nella relazione e nel dialogo, nella vita e nella storia.
Parola di cui ogni Chiesa vive ed è chiamata a rendere fedele testimonianza, ma senza mai dimenticare che nessuna, per quanto fedelmente la annunci e la trasmetta, può esaurirla in sé e appropriarsene, e che perciò tutte hanno bisogno di ascoltarne l’eco anche in altre voci, per riattingere poi sempre a quella sorgente inesauribile; quella sorgente che – come scrive Efrem Siro – di ciascuno sazia la sete, ma da nessuno può essere prosciugata. Per citare ancora l’Ut unum sint, l’ecumenismo aiuta le Chiese “a scoprire l’insondabile ricchezza della verità”.
In questa prospettiva, il dialogo non può essere un mero strumento dialettico, o peggio un semplice confronto di posizioni predefinite, ma l’inizio di un percorso che si inoltra nella ricerca di nuovi aspetti della verità, di nuove risonanze della Parola; un percorso di cui non si può pretendere di fissare in partenza la direzione e i limiti, ma in cui ci si deve incamminare con vigilanza critica, senza paura di dover rivedere posizioni acquisite o aprirsi a nuove scoperte. Un dialogo come “avventura” spirituale in cui si sa e si accetta di poter essere trasformati, in cui l’incontro con l’altro e l’ascolto della sua voce possono divenire fonte di sorpresa e rivelazione.
Si tratta, in fondo, del percorso della speranza. Che è, come ci ricorda l’apostolo Paolo, tensione verso qualcosa che ancora non si vede, cammino verso una meta che ancora non si conosce, ma verso cui si procede per fede nella parola di Dio. Le resistenze che oggi frenano il movimento ecumenico sembrano scaturire in buona misura da una carenza di speranza, da una conscia o inconscia paura di avventurarsi su strade non tracciate sulle mappe ecclesiastiche (ma «le vostre vie non sono le mie vie», dice il Signore…).
Solo utopia?
Per uscire dall’inverno ecumenico occorre che nelle Chiese maturi questa consapevolezza, questa spiritualità. Una spiritualità che non sia angusto ed evasivo spiritualismo, illusoria compensazione di frustrazioni patite su altri fronti, ma linfa vitale che nutra e orienti tutte le espressioni della vita ecclesiale, dalla teologia alla liturgia, dalle strutture istituzionali ai rapporti interni della comunità. Una maturazione siffatta non può, ovviamente, essere frutto di una pura strategia operativa, ma può nascere solo da una rinnovata effusione di quella “grazia dello Spirito Santo” che, come dice il Concilio, è stata all’origine del movimento ecumenico, e da una rinnovata e radicale docilità dei cristiani e delle Chiese ad accoglierne l’ispirazione.
Una prospettiva utopistica? La storia cristiana, antica e recente, ci dice che l’impresa è difficile e mai interamente compiuta, ma non impossibile. La nascita del movimento ecumenico, l’avvento del Concilio Vaticano II sono un esempio non solo della possibilità che anche nella storia – e nella storia cristiana – ai rigori invernali si avvicendino fioriture primaverili, ma anche del fatto che queste, per quanto sembrino a volte improvvise e insperate, scaturiscono in realtà da profondi, silenziosi e contrastati dissodamenti del terreno, da semi gettati con fiducia quando ancora l’orizzonte appariva chiuso e scuro.
Certo, si avrà sempre a che fare con l’incompiutezza e la precarietà, e dunque con la necessità di riprendere da capo l’attesa e il cammino. L’ecumenismo, come ogni espressione essenziale della vita cristiana, vive in dimensione escatologica; l’ut unum sint è un traguardo finale, verso cui l’esperienza storica può solo tendere e avvicinarsi nella speranza. Ma la speranza non trova significato solo nel compimento finale: illumina e dà senso anche ai passi temporanei e parziali, proiettando sul provvisorio un riflesso dell’eterno.
Per dare senso alla domanda “come uscire dall’inverno ecumenico”, dovremo innanzi tutto porci innanzi a quest’altra: “come vivere questo inverno?”, come attraversarlo senza smarrirsi e senza allentare la tensione verso la meta?
Nell’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, ai discepoli che si chiedono turbati che fare quando la speranza di un radicale rinnovamento della Chiesa sembra sconfitta dalla forza del potere, Celestino risponde: “Mi pare che anzitutto ci spetta la funzione della massaia che la sera copre di cenere la brace del camino, per poter più facilmente, l’indomani, riaccendere il fuoco”. Ma, chiede uno dei seguaci, “quanti anni durerà questa notte che la Chiesa di Cristo adesso attraversa?”. E Celestino: “Figlio mio, come posso saperlo? [...] C’è un mistero della Chiesa che la nostra mente non riesce a penetrare. Ma è importante che un certo numero di cristiani mantenga vivo in sé quello che sembra perduto per il mondo […] A me sembra che l’anima cristiana, la quale aspetti intensamente il Regno di Dio, si conforma a immagine di esso e vi adegua il suo comportamento, a cominciare dalle relazioni col prossimo. Non è un gioco di parole affermare che essa realizza, sia pure in misura minima, il Regno. […] I cristiani che, fin da oggi, vivono coraggiosamente secondo quello spirito, in realtà lo anticipano”.
Così è per l’ecumenismo: ogni volta che dei cristiani si incontrano con spirito fraterno, si ascoltano e cercano di aiutarsi reciprocamente a vivere secondo l’Evangelo, non solo preparano e annunciano l’unità, ma già ne accolgono e comunicano una caparra, un frammento di pienezza.