Weiqi versus scacchi
Per inquadrare gli avvenimenti che ancora una volta insanguinano il Tibet e determinano il crescere della tensione e della contrapposizione tra la Cina popolare e la “resistenza” nonviolenta tibetana, segnata dal gesto estremo dei monaci di darsi fuoco, occorre prima rendersi conto della partita che il Celeste Impero gioca da anni sullo scacchiere internazionale. Abbiamo volutamente parlato di “gioco” e di “scacchiere” seguendo le immagini che Henry Kissinger utilizza in un recente saggio sulla Cina. L’ormai anziano politico e stratega americano, a cui non difetta un pragmatismo al limite del cinismo, paragona la strategia cinese al tradizionale gioco orientale del weiqi; in contrasto con la visione occidentale, rappresentata dal gioco degli scacchi.
Il gioco
Nel weiqi le pedine hanno tutte lo stesso valore e la stessa modalità di movimento (una casella alla volta in una scacchiera di 19x19 caselle): per “mangiare” l’avversario è necessario circondare, avvolgere completamente con le proprie pedine quella altrui. Scopo del gioco è conquistare la maggior superficie e ridurre all’impotenza il nemico. La strategia di comportamento è dunque lenta e meticolosa con la ricerca di un’armonia tra la difesa e l’attacco, ma soprattutto tra la necessità di tenere vicine le pedine (che così possono essere circondate e fatte prigioniere con più difficoltà) oppure di lanciarle all’attacco disperdendole e rischiando perdite. L’obiettivo, quindi, va perseguito indirettamente, attraverso movimenti a prima vista incomprensibili lontani dai punti strategici o dal cuore della battaglia. Le pedine hanno lo stesso valore e devono muoversi con ordine e disciplina in un quadro unitario, ben presente nella mente del giocatore.
Anche gli scacchi seguono regole simili anche se, a guardare con attenzione, la modalità di gioco è completamente diversa: i pezzi hanno valori e qualità che divergono tra di loro, la strategia per la vittoria deve puntare il più velocemente possibile al re. È quello l’obiettivo fondamentale da difendere o da colpire, certamente attraverso mosse preparatorie volte a indebolire piano piano lo schieramento avversario, ma anche mediante fulminee incursioni per prendere il bersaglio grosso.
Fuori di metafora la politica estera cinese segue la tradizione del weiqi: piccoli passi avvolgenti, coerenti e determinati che non cercano di affondare subito il colpo decisivo. La “lunga marcia” della Cina post maoista è segnata da un incedere lento e globale: il tempo del “grande balzo in avanti” si è concluso, sostituito dalla stagione delle riforme armoniche interne, dell’inesorabile espansione economica, della rete mondiale di nuove alleanze.
Aspettando Xi Jinping
La Cina cerca di avvolgere lentamente l’altra potenza egemone, gli Stati Uniti, che faticano a contrapporre una strategia adeguata. Le settimane di febbraio ci parlano di un attivismo diplomatico cinese imponente: Xi Jinping, quasi sicuro nuovo presidente, ha offerto le sue credenziali in un trionfale viaggio tra Stati Uniti, Irlanda e Turchia; Li Keqiang (prossimo primo ministro) ha rincuorato i vertici europei nel tradizionale summit Cina-UE dicendosi ben impressionato dai piani per affrontare la crisi del debito sovrano; il vicepremier Wang, in visita in Sud America, ha promesso al Brasile di intensificare gli scambi commerciali bilaterali; l’inviato speciale di Pechino Zhai Jun ha gelato la comunità internazionale recandosi a Damasco. Ma non è finita. Sul fronte dei diritti umani la Cina si è sentita abbastanza forte da negare il visto di ingresso, proprio nel mese di febbraio, a un’inviata della segreteria di Stato americana, Suzan Johnson Cook, plenipotenziaria per la promozione dei diritti umani nel mondo e, in particolare, per la tutela della libertà religiosa.
In questo scacchiere globale si comprende come la questione tibetana interessi poco. Sembra ormai essere ridotta a un rituale in cui, come ben si può immaginare, i cinesi si trovano molto bene: la visita annuale del Dalai Lama alla Casa Bianca, celebrata con tutti gli onori, è seguita sempre da qualche duro comunicato della Xinhua (l’agenzia di stampa ufficiale) che stigmatizza “l’intromissione negli affari interni”. Niente più di schermaglie. Come del resto avviene con la minaccia di ritorsioni da parte cinese: soltanto alcuni capi di Stato europei hanno paura di questo e non esitano a sbattere la porta in faccia ai poveri tibetani.
La visita di Xi Jinping negli USA, avvenuta nelle scorse settimane, è stata una marcia trionfale. Scortato dal troppo accondiscendente vicepresidente americano Joe Biden, il prossimo reggitore del nuovo impero cinese si è rivelato più aperto e positivo nelle relazioni umane, arrivando addirittura a rispondere alle domande degli studenti di un college. Dal punto di vista della sostanza Xi non ha ceduto nulla, né sul fronte economico, né su quello politico, né tanto meno su quello militare, in cui sta aumentando la pressione. La linea del confronto futuro tra le due potenze sarà il Pacifico, non a caso l’unica zona del mondo da cui nei prossimi anni gli Stati Uniti manterranno uomini e mezzi (chiedendo agli alleati di fare altrettanto) proprio in chiave di contenimento di Pechino.
Ancora una volta l’altipiano tibetano e i monaci che si danno fuoco sono lontani forse non dagli interessi occidentali, ma sicuramente da una coerente strategia geopolitica. Certo il problema delle minoranze etniche e religiose sarà una spina nel fianco della Cina comunista, che si illude di ridurre al silenzio queste diversità con la repressione. Un approccio più morbido sembra però necessario: ma ciò deriva da esigenze interne cinesi, non certo dalle pressioni internazionali.
Capodanno silenzioso
La situazione sul campo è appunto tragica e insostenibile. Non soltanto per i disperati gesti di protesta dei monaci attraverso una pratica, quella dell’immolazione, abbastanza estranea alla tradizione tibetana, ma anche per il clima di sospetto e di terrore che ha avvolto la ricorrenza del capodanno in Tibet. È inutile sprecare parole vivendo in un contesto completamente diverso. Dobbiamo imparare ad ascoltare i testimoni.
Così “Famiglia cristiana”, nel numero del 26 febbraio scorso, descrive l’atmosfera: “Dal suo esilio indiano di Dharamsala, il Dalai Lama ha invitato i suoi fedeli, sia in patria che all’estero, a dimenticare i festeggiamenti per quest’anno, e a dedicarsi piuttosto alla preghiera. Lasha, del resto, è una città sotto assedio: nessuno può entrare né uscire dalla capitale senza il permesso delle autorità cinesi, che hanno disseminato la città di posti di blocco. (…)
L’inizio del Losar è stato salutato in molte parti del mondo da varie forme di protesta, che vanno dallo sciopero della fame ai cortei davanti alle ambasciate cinesi, e che hanno visto come protagonisti non solo religiosi e civili tibetani in esilio, ma anche molti loro sostenitori locali”.
La testimonianza anonima, raccolta dal sito informativo Asianews, traccia un quadro terribile. “Sono appena tornato da Lhasa. I tibetani stanno scomparendo: ognuno è terrorizzato dal bagno di sangue che sembra inevitabile. Al momento a Lhasa vivono circa 1,2 milioni di cinesi di etnia han e 200mila tibetani. La maggioranza di questi vive in aree quasi del tutto circondate da stazioni militari, con mura alte più di due metri: alcune di queste hanno in cima il filo spinato. L’isolamento dà l’impressione di quello che era il Ghetto di Varsavia. (…) Al momento ci sono circa 134 nuovi posti di blocco militari, che fermano a caso pedoni e veicoli. Oltre alle caserme dentro e fuori Lhasa, all’interno della città ci sono posti di blocco militari permanenti con 10 soldati ciascuno. Alla cerimonia del Kalachakra, celebrata nel gennaio 2012 a Bodh Gaya in India dal Dalai Lama, hanno partecipato circa 10mila tibetani provenienti dal Tibet: di questi, 3mila erano informatori del governo.
Appena rientrati in Tibet, gli altri 7mila sono stati mandati tutti nei campi di rieducazione tramite il lavoro per un minimo di 3 mesi. Gli anziani hanno implorato le guardie di tornare a casa, dato il freddo dei campi di lavoro, ma sono stati ignorati. In molti casi, alcuni familiari di questi anziani sono andati nei campi con delle coperte per i loro congiunti, ma le autorità hanno detto loro che non erano più nel campo e non sapevano dove fossero.
In ogni caso, gli agenti hanno interrogato tutti gli arrestati: hanno chiesto che lavoro facessero (e li hanno fatti licenziare), hanno eliminato pensioni e altri benefici e hanno iniziato a chiedere nomi e professioni dei loro parenti. Poi hanno iniziato dei controlli “casuali” e hanno fermato i parenti di queste persone per “controlli”. Gli agenti hanno fermato un bus con sopra 50 monache tibetane dirette a un ritiro: un informatore ha detto alla polizia che parlavano male del governo. Al momento non si sa dove siano. (…)
Il Palazzo Potala di Lhasa è un luogo di pellegrinaggio per tibetani, in particolare durante il Losar: ma nessuno può passare dai posti di blocco e Pechino ha imposto un limite di tibetani che possono stare nella capitale. Qualche tempo fa, nel Palazzo vivevano tra i 300 e i 400 monaci: ora sono 36. Nelle stanze dei lama ora vivono militari e poliziotti. Anche se è considerato un patrimonio dell’umanità, il Potala è divenuto una caserma cinese. Nel monastero interno ora ci sono i bunker militari.
Il monastero Jokhang è talmente pieno di soldati che devi stare attento a non pestarli, quando lo visiti. Nel monastero Drepung vivevano fra i 7 e i 10mila monaci: ora sono 500. Nel monastero Sera erano 6mila, oggi sono 200. Attorno a questo monastero la polizia è particolarmente presente, controllano tutto, compreso il luogo dove i monaci discutono. Il Palazzo Norbulingka era la casa di 300 monaci: oggi non sono più di 10.
I piccoli appartamenti privati del Dalai Lama sono stati venduti a un uomo d’affari cinese e, per vedere il parco Nobulingka, anche questo patrimonio dell’umanità, si deve pagare un biglietto. Mi dicono che 100 monaci sono pronti a digiunare fino alla morte contro questa situazione”.
Primo Ministro
In questo tragico contesto si colloca la visita che il primo ministro del governo tibetano in esilio Lobsang Sangay ha compiuto, a fine febbraio, in Italia e in particolare nelle province autonome di Trento e di Bolzano.
Dopo che nel 2010 il Dalai Lama ha fatto un passo indietro, occupandosi solo del potere spirituale, il “temporale” ha visto una moderna campagna elettorale che ha coinvolto le comunità tibetane in esilio sparse in 50 stati nei diversi continenti. Ha vinto Lobsang Sangay, 44 anni, che si autodefinisce come “un semplice ragazzo con enormi responsabilità”. Ha investito moltissimo nel raggiungere alcune comunità, a dorso di Yacht o attraversando guadi in jeep.
Infanzia in un piccolissimo villaggio indiano ove, è lui stesso a dirlo, “prima di andare a scuola, raccoglievo legna da ardere e fieno per le bestie. Ho sempre mangiato riso e lenticchie. Superiori a New Delhi e poi una borsa di studio per Haward Univesity ove mi laureai e lavorai come ricercatore fino all’1 aprile 2011”. I tibetani, si sa, non hanno passaporto ma sono profughi o apolidi: lo stesso Primo Ministro ha avuto problemi di visto in quanto le autorità conoscono la sua attività di propaganda della causa.
Nel corso dei vari incontri tenutisi, Lobsang Sangay ha confermato la situazione descritta in precedenza: “sofferenza, dolore, repressione, assenza totale di libertà e dignità. È in atto un processo di assimilazione che sta distruggendo la nostra cultura. L’identità tibetana sta morendo sotto i colpi di un regime poliziesco: i monasteri sono sorvegliati, è vietato pure possedere una foto del Dalai Lama oppure la nostra bandiera tradizionale”.
Il primo ministro si è poi detto contrario ai gesti estremi di monaci e laici che, in uno stillicidio settimanale se non quotidiano, si danno fuoco per protesta. Questo sacrificio è determinato dall’oppressione del governo cinese, dalle condizioni di vita insopportabili, non certo dall’istigazione all’odio dei tibetani, come insinua una goffa propaganda cinese.
“Il Dalai Lama e io abbiamo sempre invitato il popolo tibetano a non compiere queste azioni. E continueremo a scoraggiarli. Personalmente mi batto quotidianamente in tutte le sedi facendo dichiarazioni a favore della causa tibetana, al fine di fare sentire la mia vicinanza. Il buddhismo è contrario ad ogni atto o forma di violenza. L’autoimmolazione è un’azione tragica. Se è spinta da rabbia e odio non è accettabile, ma se viene fatta per una giusta causa allora credo sia diverso”.
Possibili cambiamenti
Uno sguardo realistico ci dice che, nei prossimi mesi, la situazione per il Tibet non cambierà neppure dal punto di vista della stretta repressiva, da cui derivano i gesti estremi dei monaci. Almeno fino al cambiamento dei vertici previsto per ottobre, la dirigenza comunista non vorrà avere grattacapi. Né gli Stati Uniti spingeranno per aumentare le tensioni con la Cina. Ci sono poche possibilità di novità, e queste potranno venire soltanto dall’interno del Celeste Impero. Ciò non toglie che le denunce, le pressioni esterne, la coscienza dell’opinione pubblica mondiale siano necessarie e utili per spingere nella direzione della libertà e dei diritti umani.