1395 giorni di assedio
Sarajevo 6 Aprile 2012, 11541 sedie rosse disposte su 825 file si snodano per 800 metri lungo la Marsala Tita dalla moschea Alì-Pascià fino alla Fiamma eterna per ricordare le vittime dei 1395 giorni di assedio che la città ha subito dal 1992. Quattro interminabili anni a partire dal giorno dell’ultima grande manifestazione, dove oltre 300.000 persone erano scese nelle strade di Sarajevo per difendere la Pace, fermata dagli spari assassini dei cecchini serbo-bosniaci, che lasciarono sulla strada i corpi delle prime due vittime di questa incredibile carneficina.
L’impatto emotivo è forte, soprattutto quando si incontrano le 643 sedie piccole a ricordare gli altrettanti bambini morti durante la lunga stagione della guerra.
Lapidi
Attraversando la Bosnia Erzegovina oggi, passando per Slovenia e Croazia,le prime repubbliche jugoslave che diedero vita, con la loro dichiarazione di secessione nel 1991, alla disgregazione della Federazione di Tito, è impossibile non incontrare lunghe file di lapidi in ricordo delle oltre 130.000 vittime di questo conflitto al quale l’aggettivo nazionalista non basta per capirne la portata.
Vukovar, Srebrenica, Mostar, Sarajevo sono stati alcuni dei luoghi dove la guerra non ha ucciso solo le persone ma anche le città, la loro storia, il loro ideale di spazio multi: religioso, culturale, artistico e sociale.
Luoghi dai quali oltre 2.200.000 persone sono state costrette a lasciare la propria casa sotto la spinta della pulizia etnica, sancita con gli accordi di Dayton che conclusero la sanguinosa stagione degli orrori nell’inverno del 1995.
La fredda contabilità della guerra non basta a raccontare cosa sia davvero avvenuto in quegli anni o a descrivere quanto in profondità sia entrato il dolore, l’odio, la rassegnazione nelle persone che il conflitto l’hanno subito sin dentro lo spazio intimo della famiglia. Il bisturi criminale ha reciso i legami fondativi di fratellanza e unità di un Paese dove i matrimoni misti superavano il 30% e che ha accolto e ospitato, per oltre 500 anni, gli ebrei in fuga dalla Spagna.
Le sedie di Sarajevo rappresentano la lunga linea di sangue che ha marcato nel profondo una terra e i suoi abitanti e che si è allungata, nello spazio e nel tempo, in una catena di altre guerre, Kosovo e Macedonia, dimostrando l’incapacità dell’Europa di custodire fedelmente e politicamente l’importante desiderio di Pace seguito alla fine della seconda guerra mondiale.
Urbicidio, memoricidio, genocidio e stupro etnico sono alcune delle pennellate che hanno macchiato per sempre la credibilità di tutte le organizzazioni internazionali compresa quella delle Nazioni Unite. Volutamente conniventi del massacro, hanno aggravato la loro posizione fallimentare con una serie di cessate il fuoco violati o risoluzioni ignorate dimostrando non solo l’incapacità di mantenere la pace attraverso la costituzione delle zone protette, ma anche l’inconsistenza di un’azione di politica diplomatica che ha abdicato di fronte alla complessità degli avvenimenti.
I paradigmi del Novecento di democrazia, diritti umani e convivenza si sono frantumati alle soglie del terzo millennio e nel cuore dell’Europa post illuminista.
Grattacieli
Lo sguardo sul passato, teso a indagare la complessità di quanto avvenuto alle porte di casa, risulta incompleto se non accompagnato da una indagine sul presente.
I nuovi grattaceli di Sarajevo, simbolo di una modernità che avanza, non bastano a sospendere il giudizio su quanto è stato fatto in questi vent’anni.
Senza spingersi in un’analisi di tutta l’area della ex Jugoslavia, lo stato di salute della Bosnia Erzegovina si presenta alquanto precario.
La macchinosa struttura istituzionale sancita con gli accordi del 1995 ha portato a un capolavoro burocratico che appesantisce il funzionamento dello Stato. Una situazione caratterizzata da 150 ministri difensori delle istanze del proprio partito nazionalista anziché dello stato federale. La rappresentanza politica è sostenuta da una forma di razzismo istituzionale ove il candidato non deve solamente concordare le linee della coalizione, ma deve anche essere della stessa componente etnica. Dalla democrazia dei cittadini alla politica dei recinti etnici.
La situazione economica è caratterizzata da un tasso di disoccupazione che supera il 35% con oltre un milione di persone che vive sotto la soglia di povertà e il 48% al limite di questa soglia. In una Europa in recessione, la Bosnia, che non ha ancora presentato ufficialmente la richiesta di apertura dei negoziati per l’ingresso, rischia di restare ai margini di ogni possibile strategia di sviluppo per l’area balcanica e nelle mani di sempre più solide alleanze trasversali tra criminalità organizzata e organizzazioni politiche.
Due scuole sotto un unico tetto è l’accattivante titolo dato alla riforma del sistema dell’istruzione caratterizzato dalla segregazione degli alunni in chiave etnico religiosa. I bambini di religioni diverse frequentano la scuola nello stesso edifico, ma in classi separate. Alcune materie sono comuni, altre, come la storia, sono studiate a seconda dell’appartenenza. In questo senso non c’è una memoria condivisa, ma ben tre versioni diverse degli stessi avvenimenti. Il voto di religione fa media matematica nella valutazione dell’alunno; mettere in discussione questo metodo significa mettere in discussione la propria incolumità.
In un panorama generale che non lascia spazio all’ottimismo, è giusto ricordare alcuni segnali in controtendenza. L’ultimo in termini temporali è il progetto “Museo dell’assedio di Sarajevo – L’arte di vivere 1992-1996”, promosso dalla Municipalità di Sarajevo e dal Consorzio promotore del progetto (oltre a FAMA anche MESS, OGBIH – Obrazovanje gradi BiH, YIHR BH – mladih za ljudska prava u BiH). Il gruppo FAMA è formato da giovani artisti sarajevesi conosciuti a livello internazionale. Il museo raccoglie materiale diverso sull’assedio della città e raccolto in vent’anni di lavoro e vuole rappresentare il desiderio di rompere con l’uso della memoria funzionale al mantenimento delle divisioni per aprire a una memoria condivisa necessaria a un reale processo di riconciliazione. In questa direzione è orientato il lavoro di alcuni artisti che cercano di uscire dall’omologazione nazionalista per reinventare una comunità politica contro la frammentazione del Paese.
Gli avvenimenti che hanno interessato lo spazio balcanico di questi ultimi vent’anni ci coinvolgono direttamente come cittadini europei, donne e uomini attenti e partecipi alla costruzione di un’Europa sorretta da legami sociali di convivenza.