Preoccupiamoci
Dal nostro corrispondente a Londra: “Bene la fermata della ‘tube’ è St. Paul, ci siamo, una circumnavigazione della grande e maestosa cattedrale ed eccoci arrivati: il sagrato di Occupy London!”.
Se ci pensate è un accostamento davvero insolito! Cosa ci farà mai un covo di anarchici, ‘comunisti’, laici davanti a una cattedrale, anzi la cattedrale di Londra?!
Vi dirò che il fatto mi rende davvero felice. Felice di sapere che questa protesta chiama in causa la Chiesa con la C maiuscola, fatta di persone la cui coscienza dovrebbe essere continuamente smossa da quelli che sono eventi più o meno rilevanti che segnano il nostro tempo. E sono ancor più felice perché almeno in questo contesto, seppur tacitamente, la Chiesa ha abbracciato la causa dei manifestanti, permettendo loro di occupare il sagrato. Ecco forse un passo ancora più lungo sarebbe stato partecipare attivamente a Occupy London, ma consideriamo il gesto una piccola goccia che renderà il corso d’acqua ancora più variegato e impetuoso.
La metafora del corso d’acqua aiuta nel cercare di descrivervi la forza di questo movimento: non solo Occupy London o Occupy New York, per citare i più famosi, ma tante realtà anche nella nostra Italia, in una rete di relazioni che si avvale di semplici canali comunicativi per confrontarsi, organizzare, pianificare, criticare: in primo luogo il passaparola informatico (facebook, blog, twitter), una tradizione ben ripresa dalla Primavera Araba che, in mancanza del diritto di associazione spontanea, ha saputo sfruttare al meglio e seguire, la strada, il luogo per eccellenza dell’incontro, con la convinzione che più “occupi” spazio, più ottieni una maggiore attenzione e forse partecipazione.
La forza dell’acqua
Un corso d’acqua variegato perché il movimento vede la presenza di nonni e giovani, studenti e lavoratori, mamme con i passeggini, uno accanto all’altro.
Nessuna gerarchia, gruppi di lavoro per la gestione delle varie attività del campo a cui aggregarsi spontaneamente; Occupy London, mi dicono le due ragazze con cui m’intrattengo per più di un’ora a parlare, vuole essere la prova tangibile che la divisione del potere in maniera orizzontale è possibile e che la vera democrazia esiste! Allora, alla luce di tutto ciò, passatemi la scherzosa citazione del covo di anarchici e comunisti, ma spero auspichiate come me in una Chiesa che finalmente si possa unire al grido di “basta ai soprusi” che arriva dal basso!
E ancora un corso d’acqua impetuoso per l’idea della non-direzionalità, vale a dire la mancanza di obiettivo della protesta, che, insieme al rifiuto di uno schieramento politico e al voluto evitato contatto con le istituzioni, è una tra le critiche tanto mosse verso Occupy.
Il che lascia scettici, ma forse bisogna ricordare che il movimento è ancora in uno stadio embrionale. C’è solo da aspettare e ne è prova il fatto che, sebbene il sagrato sia stato lasciato dopo tre mesi di occupazione, ancora in rete rimane attiva tutta la mobilitazione.
Teniamo anche presente come Occupy sia il grido di sofferenza e sfogo di rabbia rispetto al sistema attuale!
Forse quando pensiamo a protesta, da buoni attivisti, immaginiamo il coinvolgimento di un target di persone sensibili all’argomento, la marcia in strada, l’uso dei giornali per dar voce e il successivo impegno con le istituzioni già presenti per arrivare allo scopo prefissato ancor prima di manifestare.
Occupy, ecco, è completamente l’opposto: parte da un desiderio comune di dire basta a tutto ciò che non va, raccoglie gente diversissima, rifiuta le istituzioni presenti, immagina un nuovo sistema democratico e si avvale della tecnologia dei social network.
Siamo il 99% della popolazione: questo è lo slogan di Occupy. Avrà successo questa nuova maniera di agire?”
Senza obiettivi?
Ecco il contributo della nostra corrispondente da Londra, Giulia, che è stata l’anello di congiunzione delle lotte di Occupy con la nostra attività di giovani del Collettivo di Pax Christi.
Sono molti i punti di contatto tra il nostro modo di agire e quello di Occupy!!
In primo luogo ci accomunano l’approccio al confronto e alla discussione, improntato a uno stile di assoluta orizzontalità, e il desiderio di riaffermare il diritto alla contestazione e alla rivisitazione critica dei saperi.
Occupy, poi, è caratterizzato da un rapporto particolare con le proprie finalità: il principio della non-direzionalità: non c’è un rigido orientamento della protesta verso specifici e circostanziati obiettivi, ma piuttosto un desiderio spontaneo di stare insieme. Il Collettivo, per certi aspetti, si avvicina a questo modo di agire: abbiamo sempre una grande difficoltà a definire effettivamente cosa sia il Collettivo a chi ce lo domanda!!
In più è forte l’arricchimento derivante dalle molteplici provenienze geografiche di chi è parte del Collettivo: non abbiamo le dimensioni di “melting pot” che una metropoli come Londra (o New York per Occupy Wall Street) possono presentare, ma comunque in piccolo anche noi possiamo sperimentare l’incontro con la diversità che può nascere dalle differenze di contesto regionale e di storia personale.
Ma il dato di fondo che ci fa sentire sintonizzati sulle stesse frequenze del movimento transnazionale di Occupy è sicuramente la radicale incompatibilità tra l’insieme di valori e sogni da cui ci sentiamo animati e la realtà sociale, economica e politica che sembra dominare il nostro presente storico. Assistiamo a un commissariamento della politica da parte delle istituzioni finanziarie internazionali e alla connessa affermazione della assoluta preminenza su qualsiasi diritto sociale degli interessi dei “mercati”, divinità pagana, cinica e insaziabile. Mentre la democrazia cede il passo all’“obiettività” della tecnocrazia, subiamo una continua violenza antropologica dal mondo dell’informazione: ogni giorno veniamo educati al valore della competizione, continuamente bombardati riguardo l’importanza che la nostra formazione, le nostre preoccupazioni e in sostanza le nostre esistenze siano conformi ai desiderata del mercato del lavoro, mentre qualsiasi debolezza o resistenza al paradigma culturale dell’homo competitivus e consumens è additato come perdente.
Il collettivo
Occupy interroga da vicino il Collettivo perché rappresenta la sfida lanciata proprio ai nuovi templi (la borsa di Wall Street su tutti) della ierocrazia della troika che aborrisce la contestazione e taccia di “irrazionalità” ogni minimo battito di coscienza, perché la “loro” ragione non tollera la gratuità dell’impegno, ma è suddita della dittatura dell’interesse.
Certo, qualche critica è possibile muoverla al fenomeno Occupy, specie con riguardo al rapporto con la politica. Se da un lato è dirompente l’assoluto rigetto delle logiche dell’utile politico e la ricerca di forme nuove di partecipazione con un’enfasi rinnovata sui diritti e doveri di cittadinanza, è da rifuggire la tentazione di considerare “tutti uguali” perché, nel quadro istituzionale, non tutti i soggetti politici condividono le stesse responsabilità.
Questo significa avere la forza di tradurre in alternativa politica il patrimonio enorme di idealità di cui la stagione dei movimenti sociali trabocca: aggredire la concentrazione della ricchezza, rivoluzionare la cultura politica, ridisegnare il rapporto tra partecipazione e rappresentanza, perché mi sembra di poter dire, con Paul Ginsborg, che il problema non è tanto quello della scelta tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa, quanto nella capacità di accogliere la sfida che sta nel garantire la massima quantità possibile di partecipazione e nel rinnovare l’istituto della rappresentanza.
Insomma, Occupy e il Collettivo hanno enormi sfide davanti, tra le quali si colloca anche quella del ripensamento del proprio modo di essere: l’urgenza è quella di essere il cambiamento che si vuol vedere nel mondo, il pericolo è parlarne soltanto…