Stranieri in casa altrui
A dieci anni dall’avvio dell’intervento militare in Afghanistan, il bilancio è perlopiù negativo. Lo dimostrano quei rapporti accademici che disegnano il profilo di un Paese dove manca ancora l’accesso ai principali servizi di base ed è negata la tutela dei diritti fondamentali, ma lo dimostra anche l’inefficacia delle operazioni delle forze Isaf/Nato e americane contro i movimenti antigovernativi. Soprattutto, lo dimostrano le opinioni di molti afgani, secondo quanto emerge dalla ricerca Le truppe straniere agli occhi degli afgani: percezioni, opinioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, promossa dalla Ong Intersos e realizzata da chi scrive in tre delle quattro province del Regional Command West (RC-W), il comando militare delle forze Isaf-Nato sotto responsabilità italiana.
la ricerca
La ricerca nasce dalla convinzione che relegare opinioni e percezioni degli afghani alla marginalità nel dibattito politico, sottostimarne la valenza, ricondurle a semplice frutto della propaganda antigovernativa laddove contraddicano le idee prevalenti tra gli analisti occidentali, significa perdere l’occasione, forse l’ultima, che la “transizione” offre alla comunità internazionale per rimediare agli errori del passato. Al di là delle differenti valutazioni sulle cause a cui attribuire l’instabilità attuale, ogni ipotesi futura, infatti, è destinata a rimanere estremamente fragile, a meno che non si tenga conto di tali opinioni. Se il presupposto della ricerca sta, dunque, nella precisa esigenza di portare all’opinione pubblica delle voci fin qui perlopiù derubricate a elemento accessorio, il giudizio sui dieci anni trascorsi che ne emerge è altrettanto chiaro, per quanto articolato: le interviste raccolte nell’estate 2011 con interlocutori diversi – dai religiosi ai funzionari governativi, dai commercianti agli attivisti – segnalano un forte scollamento tra le dichiarazioni delle cancellerie occidentali, che sostengono che le forze Isaf-Nato siano riuscite in buona parte a stabilizzare il Paese, e quelle degli afgani, secondo i quali avrebbero fallito nel garantire la sicurezza. La maggior parte degli intervistati lamenta condizioni di sicurezza precarie e ritiene che il dispiegamento delle truppe internazionali non abbia prodotto i risultati sperati: “Nel 2004 – ha affermato tra gli altri M. Akram Azimi, docente all’Università privata di Ghargistan, a Farah – i talebani erano circa 400. Oggi possono contare su 30.000 combattenti. La comunità internazionale dovrebbe cominciare a chiedersi perché i ribelli aumentano invece di diminuire”.
Responsabilità
Tra le cause, ne emergono due in particolare: la pluralità di orientamenti, tattiche e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti e lo scarso coinvolgimento delle controparti afgane nell’elaborazione della strategia di pacificazione e stabilizzazione: “È mancata una strategia coerente tra gli attori coinvolti nel conflitto; inoltre, essa è stata elaborata altrove, da gente che non conosceva il Paese”, ha dichiarato Soraya Pekzad dell’organizzazione Voice of Women, attiva soprattutto a Herat. È stato criticato, inoltre, lo squilibrio eccessivo tra i fondi destinati alle operazioni militari e quelli per lo sviluppo e la ricostruzione, oltre che l’enfasi posta su una concezione della sicurezza ridotta alla sola incolumità fisica, a scapito degli aspetti sociali, economici e istituzionali di una più ampia ‘sicurezza umana’: Non si è prestata sufficiente attenzione allo sviluppo economico e alla ricostruzione – mi ha spiegato Rahman Salahi, leader della Shura dei professionisti di Herat –. Servono opportunità di lavoro, senza le quali i talebani sono destinati a crescere”.
Alle forze internazionali è stato, poi, imputato l’uso indiscriminato dei bombardamenti aerei e dei raid notturni e la violazione degli spazi domestici. Tra le lamentele più diffuse, l’idea che agiscano al di fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta, esenti dallo scrutinio pubblico: “In caso siano vittime di un incidente, gli afghani non hanno alcuno strumento legale per chiedere giustizia, mentre la protezione dei civili dovrebbe essere una priorità”, ha denunciato Abdul Qader Rahimi, a capo della Afghanistan Independent Human Rigths Commission per la provincia di Herat. Il percepito deterioramento delle condizioni di sicurezza, il rafforzamento dei movimenti antigovernativi e la sensazione che i soldati stranieri siano immuni dalla legge hanno fatto crescere la sfiducia e la diffidenza nei loro confronti, insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere gli obiettivi strategici dei rispettivi Paesi piuttosto che per garantire il benessere della popolazione: “Nel 2001, in un mese, le truppe straniere sono riuscite a sconfiggere l’intero movimento dei talebani. Come mai, oggi, sono più forti di prima?”, ha chiesto retoricamente Abdul Ghani Saberi, vicegovernatore della provincia di Badghis. Molti intervistati hanno sostenuto che i contingenti Isaf-Nato sarebbero disposti persino a sostenere i talebani e ad alimentare il conflitto, per evitare combattimenti veri o per continuare a motivare la propria presenza in Afghanistan. “Perché oggi i talebani sono forti? Si dice che qualche Paese straniero fornisca loro assistenza, armi, equipaggiamenti vari, aiuti militari e logistici. La ragione è che ci sono obiettivi di natura strategica e, per raggiungerli, occorre una presenza di lungo termine in Afghanistan”, ha sostenuto con enfasi Faisal Kharimi, giornalista e docente universitario a Herat.
Timori
A dispetto delle tante obiezioni mosse all’operato degli eserciti stranieri, la maggior parte degli intervistati ha manifestato comunque forti timori per l’annunciato ritiro, previsto per il 2014. Tra le ragioni: l’instabilità del quadro politico interno, la scarsa fiducia nei confronti della leadership locale e l’idea che le truppe straniere rappresentino un deterrente all’affermazione dei talebani più efficace dell’esercito locale, ancora impreparato: “Gli stranieri ora sono qui e la situazione è grave. Nel caso se ne andassero, forse peggiorerebbe. Devono restare più a lungo del 2014, ma devono fare meglio e diversamente da quanto fatto finora”, ha sintetizzato Sardar Saraji, vice capo della Shura-e-Ulema di Qala-e-now (uno degli organi di rappresentazna degli Ulema, n.d.r.), nel Badghis. I timori legati al ritiro sono, però, principalmente due: la preoccupazione che il vuoto che ne deriverebbe sarebbe occupato dalle potenze regionali confinanti, in particolare da Iran e Pakistan, e l’idea che, una volta avvenuto il ritiro, gli attori internazionali possano rinunciare a ogni futuro impegno politico-finanziario: “La grande preoccupazione è che, con il ritiro delle truppe, l’Afghanistan venga di nuovo dimenticato”, mi ha spiegato Abdul Khaliq Stanikzai, membro della Ong Sanayee Development, che si è fatto portavoce di una delle contraddizioni che emergono con più evidenza dalla ricerca: da un lato l’esplicita richiesta che venga restituita agli afghani la sovranità su tempi e strumenti per gestire il Paese e deciderne le sorti future, dall’altro l’appello rivolto alla comunità internazionale affinché non abdichi alle proprie responsabilità politiche e finanziarie, continuando a sostenere la ricostruzione e la cooperazione civile una volta che i militari saranno tornati a casa.