Una storia complicata
In una città in cui si susseguono varie iniziative, non poche volte con sovrapposizioni di date e spesso con pochi partecipanti, un piccolo “gruppo di gruppi” (Pax Christi - SAE) organizza l’ennesimo ciclo di incontri sulle donne, a chilometro zero – cioè con manodopera locale – e pensando di intercettare amiche e conoscenti. Scelgono una formula semplice e itinerante e gli incontri iniziano, presso la sede della Rivista ComboniFem, con il primo di taglio biblico (Gesù e la storia delle donne: un incontro che cambia la vita). La cosa non si dipana però come da protocollo: la stanza predisposta non riesce assolutamente a contenere le persone, il gruppo si deve spostare, riempie la chiesa e quando non ci sono più panche, né sedie e cuscini, le persone, donne e anche uomini, siedono a terra.
Cosa cercano? La domanda, dalle reminiscenze evangeliche, si impone decisamente durante la serata guidata da Grazia Papola, ma si ripropone anche nei seguenti round, nonostante la dislocazione metta a dura prova le agende e la capacità di parcheggio dei partecipanti.
Difficile rispondere per altri, ma l’idea che me ne sono fatta si articola su due piani, totalmente asimmetrici: da una parte l’interesse per i temi – e per questo non stupisce che il tutto esaurito sia stato legato a una lettura biblica – ma dall’altra al titolo (Donne e Chiesa) preso in assoluto, come domanda urgente sul presente. Questo dislivello ha reso un po’ faticoso lo svolgimento, perché la retrospettiva storica, ad esempio, sembrava quasi una divagazione, da assolvere velocemente per venire a ciò che interessava. Ma ha indicato che l’iniziativa era andata a segno soprattutto per quella seconda istanza, segnalata dalla chiave interpretativa che precisava il titolo: “rivolto a donne e uomini interessati alla vita della comunità ecclesiale che sentono la necessità di cambiamenti e desiderano attivarsi per dare un contributo costruttivo”. Così anche il richiamo al Concilio (Lucia Vantini: Donne e Concilio: un segno dei tempi) e alla dimensione ecumenica (Kerstin Vogt: Esperienze di donne nelle chiese protestanti) vengono interpretati in questa dimensione esistenziale e trasformativa.
In un momento in cui ci sono tanti problemi, in cui crisi economica e difficoltà politica creano una base comune, la domanda assomiglia un po’ alla richiesta rivolta a Neruda, durante un suo comizio, quando la folla di contadini cominciò con voce in crescendo a pretendere “poesia, poesia”. Mentre la ricerca C’è campo? dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto segnala che le giovani donne rispondono sulla religione più o meno come i giovani uomini, stupisce il resto di interesse che questo porta comunque con sé, dal libro Ave Mary di Michela Murgia, agli interventi, più o meno leggibili e più o meno condivisibili, che si susseguono sul tema; dalle esortazioni all’obbedienza alle enfatiche omelie sull’importanza delle donne nella Chiesa.
Rispetto a tutto questo mi sembra si possano fare alcune considerazioni: la prima riguarda la relazione fra l’urgenza di parole e gesti, la cui intensità dipende anche dalla coscienza di ognu-no/a, e il compito di non abbandonare una riflessione critica, dunque sospettosa verso le soluzioni semplificate e gli slogan. Così scrive Rosangela Pesenti in un libro a più voci su femminismi e nonviolenza: “Difficile parlare di pace dentro l’urgenza del fare che ognuna sente come impellente necessità [di fermare guerre e massacri] unita al sentimento di impotenza per i pochi gesti che abbiamo davvero a disposizione e che ci riducono di colpo a una realtà di mancanza di potere sul terreno delle decisioni politiche [...] Non mi sottraggo alle parole brevi e incisive degli slogan e degli appelli, ma sento la responsabilità di restituire alle parole tempi e luoghi adeguati perché avverto che proprio nell’illusione di dover abbreviare i discorsi per raggiungere più in fretta le nostre mete è nascosta una trappola che invalida poi ogni azione” (Donne pace democrazia in Donne disarmanti, ed Lanfranco – Di Rienzo, D’auria, Napoli 2004, pag. 65).
La seconda osservazione si collega direttamente a questa e anche al titolo del libro appena citato: attorno a femminismo/femminista si coagulano sentimenti e risentimenti che non rendono giustizia a un’eredità complessa e plurale. Si può capire che nuove generazioni sentano l’esigenza di trovare parole nuove, ma il rifiuto acritico e neanche molto informato rischia di creare trame di consenso proprio con gli ambienti più tradizionali e patriarcali, e questo proprio mentre tutte le statistiche parlano di trattamento discriminatorio nel lavoro e nella retribuzione e di aumento della violenza familiare sulle donne, in forma assolutamente trasversale, senza distinzione di censo, di religione, di appartenenza etnica. Se non ora quando e l’universo di pratiche che intorno al movimento prendono corpo connette, mi sembra, le due istanze; nuove pratiche, capaci di nominare diversamente le cose non possono significare rimozione della memoria: non a caso diverse pubblicazioni percorrono questa strada e tra di esse segnaliamo Monica Lanfranco, Letteralmente femminista, Punto Rosso, Milano 2009, Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Milano 2011, Elisabeth Green, Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista, Claudiana, Torino 2011.
La presenza, inoltre, in tutto il percorso di ComboniFem ricorda plasticamente un dato imprescindibile: siamo ancora molto eurocentrici ed eurocentriche nei punti di vista e nelle domande. A fronte di questa voragine di assenza teorica abbiamo tra noi – spesso nelle nostre stesse case, certo nelle nostre stesse strade e, a volte, nelle nostre stesse chiese – donne provenienti da altrove, presenze silenziose e ormai insostituibili nella cura di anziani e disabili. Qualsiasi riflessione che non ne tenga in debito conto, nasce carente e decadente.
Un’ultima osservazione riguarda gli uomini, come si diceva presenti e attenti alle serate, e quanto meno mai ironici, dato relativamente nuovo e comunque incoraggiante. Perché la questione femminile non riguarda soltanto le donne, ma un modo di abitare e comprendere il mondo e anche, in subordine, le Chiese.
Per questo motivo pratiche e cartelli come quello di maschileplurale, che invitano a prendere posizione per una maschilità nonviolenta, possono essere accolti come segni dei tempi. Sperando che anche i linguaggi e le pratiche ecclesiali sappiano essere all’altezza della sfida, almeno un po’.