Ribelle per amore

Un cantico alla poesia, alla resistenza, alla profondità di pensiero di David Maria Turoldo. Perché proprio la poesia è un atto supremo dell’attenzione alla vita, alla vicenda dell’uomo e dei popoli.
Giancarlo Bruni (Monaco dei Servi di Maria e della Comunità ecumenica di Bose)

Benedico il Signore
che la mente m’ispira:
per questo immane
soffrire dei giusti
per questo gioire
tante volte insperato,
per questo sperare di glorie
ogni giorno:
impossibile che sia il Nulla
l’estremo traguardo:
impossibile sarà pensarti
come realmente tu sei,
o mio Signore:
sconosciuto Iddio sei tu
la nostra unica sorte
(David Maria Turoldo, poesia composta il giorno prima della morte)

La morte di David Maria Turoldo è avvenuta il 6 febbraio 1992, preceduta da una poesia che è il riassunto di una vita, la narrazione di una biografia interiore, l’esposizione della visione di essenza di se stesso lasciata agli amici e alla terra amata con passione di fuoco.
Emerge una lettura di sé, nella poesia, posta tra due estremi: Dio e il Nulla, tutti e due al maiuscolo. È in gioco la ragione ultima su cui una vita sta o cade. “Uomo, dove sei?” (Gen 3,9) è la prima parola rivolta da Dio all’uomo. Domanda che ha sempre accompagnato David e che mi ha rivolto personalmente quando avevo appena diciassette anni (Turoldo era mio docente di filosofia a Firenze): “Chiediti dov’è il tuo ubi consistam, entra in te stesso per dare il nome a chi e a che cosa ti abita e ti determina. Chiama per nome il tuo dove costitutivo, la tua vera patria cui il tuo essere e il tuo esserci traggono consistenza, orientamento e sussistenza”.
“L’autunno, spogliando i rami, lascia vedere il cielo” (Ch. Singer). David, in quest’ultima poesia, spoglio di tutto, vede la radice della radice, il dove metafisico su cui può poggiare il cuore dell’uomo, il suo pensare, il suo sentire e il suo vivere, e le dà il nome: il Nulla o Dio. Aut-aut. Chiara è la scelta: “Impossibile che sia il Nulla l’estremo traguardo… sconosciuto Iddio sei tu la nostra unica sorte”.
La vita dell’uomo scorre su questo crinale, su questa opzione fondamentale tra il Nulla e Dio. David appartiene a una generazione in definiva straniera alle logiche e ai luoghi comuni, generatori di dissenso e di consenso, ancorata alla mai arresa ricerca del senso al giorno dato a vivere e all’ora data a morire. Senso, e questo lo qualifica come uomo credente, dato da un Tu sconosciuto: “Impossibile sarà pensarti come realmente tu sei”, eppure invocato; “O, mio Signore”.
David sa che l’ambito proprio della fede è l’esperienza, l’essere incrociati da un Tutt’altro che viene da oltre e che si affianca all’uomo per dischiuderlo al Senso. E sa come sia facile l’illusione: “Un conto è credere”, amava ripetere, “un conto è credere di credere”. Ma qui si apre un nuovo capitolo che merita un discorso a parte, non tanto sull’esistenza o meno di Dio, tema in ultima istanza straniero all’orizzonte di David, quanto su quale Dio, su quale immagine di Dio, abbiamo. E il discorso fa entrare in scena la figura di Gesù.

Poeta contadino
In secondo luogo, la poesia letta pone in luce una consapevolezza, David sa di essere poeta e poeta ispirato da un Dio, per questo ringraziato: “Benedico il Signore che la mente m’ispira”. Una poesia il cui stile riflette la sua origine, come asserisce egli stesso in un’intervista: “La mia origine può spiegare molte cose della mia poesia. L’anima della mia poesia è la terra, sono i sassi, è la mia povertà contadina, è questa genuinità dei campi o, se si vuole, anche ‘la rozzezza’ del bosco e del greto… il mio Friuli credo che sia il sottofondo della mia poesia, una poesia un po’ selvatica e anche, direi, che non ha niente a che fare con l’estetica, o almeno con un codice di estetica che mi è sempre stato estraneo… in fondo sono rimasto contadino puro, tutt’al più diventato teologo”. È poesia di un contadino-teologo, ispirato dal Signore; poesia, dunque, come sguardo penetrante e giudizio profetico-sapienziale della realtà. David è una creatura plasmata dalla terra, il suo Friuli; è creatura attenta e presente “quale sentinella vigile, alle vicende umane e agli impulsi di giustizia, libertà e verità che, ovunque, agitano società, comunità credenti e singole persone” (F. Geremia). David, infine, è creatura biblica, quale contadino va al cuore delle vicissitudini storiche, le interpreta, le giudica e le vive con la passione d’amore del Dio dei profeti, dei sapienti e dei salmi, il padre di Gesù. Un fuoco chiuso nelle sue ossa, incontenibile (Ger. 20,9), una passio fatta parola incandescente che, nella sua versione poetica, ha i tratti di un salterio prolungato, assiduamente frequentato.
Giustamente è stato scritto che “l’origine della poesia di Turoldo... sono i salmi” (L. Pacchin). La tristezza, lo sdegno, l’ira, la rabbia e la speranza salmodica rivivono nella poesia di David, un pulviscolo di sentimenti suscitato dalla situazione storica umana ed ecclesiale. David profeticamente è un no al “così stanno le cose”, sì al sogno di Dio sul mondo: “Uomo ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea, 6.8). Questa è per Turoldo la lingua materna comune dell’uomo che, sola, offre all’uomo la possibilità di un’uscita dal caos e di un ingresso in una vita umana, umanizzante e nella gioia. Caos dato da quelli che sono stati definiti i “miti fondatori dell’Occidente” (R. Mancini), le sue parole d’ordine che sono potenza, identità esclusiva ed escludente, proprietà e sacrificio, il generare vittime e rancori in nome dei primi tre, e giusti mai arresi.

Passioni tristi
Turoldo è stato una sentinella che ha resistito fino all’ultimo respiro tra denuncia e speranza, “per questo immane – leggiamo nella sua ultima poesia – soffrire dei giusti, per questo gioire tante volte insperato, per questo sperare di gioire ogni giorno”. Denuncia di un mondo triste dalle “passioni tristi”, come è stato scritto, perché sotto il segno del grande idolo, di una fame mai saziata di oro che perverte la mente e genera sangue, e i santi ridotti a oggetti di devozione che non nuocciono più. Valga ad esempio la poesia
“Mia Europa!”:
Maledetta Europa,
per i tuoi giorni
e per le tue notti
per il tuo passato
e per l’avvenire.
Maledetta amata
odiata Europa,
sono le tue città
sempre più cariche
di rapine:
giungle impenetrabili.
I santi sugli altari
nella gloria barocca
sono tutti in condizioni
di non nuocere più.
(...)
Europa, donna
che sedusse l’universo,
una mano nera ha rotto
i fili della tua mente.
Europa sempre affamata
non di fede
ma di oro e sangue…
Denuncia, amore, “amata Europa”, amato mondo, e speranza: seme di nuova nascita alla giustizia, alla compassione cosmica e all’umile camminare con Dio è il soffrire dei giusti, e segno di apparizione di un convivere diverso sono le oasi dell’insperata gioia e il permanere della speranza del gioire, un segno messo tra parentesi. Fede, amore e speranza che generano nella storia e nella Chiesa una singolare figura antropologica, di uno, il “resistente al cos’è”, il mai omologato, il “resistente al già” di nuovi modi di essere e di nuove forme di esprimerlo, il creativo. Questa la perenne attualità di un uomo impossibile da imprigionare in una sola definizione, come ha ricordato Carlo Maria Martini nell’omelia delle esequie: “È difficile definirti, pur se qualcuno l’ha tentato: poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini”. E nuovi capitoli si aprono su questo frate cantore di Dio e amico appassionato di ogni creatura, un disturbatore dalla mente ampia e dal cuore dilatato che ai sognatori di modi di pensare, di sentire e di vivere altrimenti, umanissimi, ricorda che vi è un prezzo da pagare, la “solitudine dei resistenti che fa corpo con lo stesso essere cristiano” (A David da “Ritorniamo ai giorni del rischio” – 1985). Ancora l’Europa assunta a paradigma di un mondo.
La resistenza è insita nel suo essere cristiano.
Così lo ricorda Alda Merini (10 febbraio 2002): “Era una montagna di fede ma era anche una montagna di misericordia”, un ribelle per amore, un costretto da un fuoco divorante a profetizzare e a poetare: “Era – dice ancora Alda Merini – un costretto a prendere la materia della vita e farne un canto”.
“Poesia è rifare il mondo, dopo il discorso devastatore del mercadante”, poesia come “atto supremo dell’attenzione (S. Weil) alla vita, alla vicenda dell’uomo e dei popoli.

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