La trasparenza dell'invisibile

Testimoni del bene, fautori di speranza, volto nonviolento della fede. Ecco la vera forza di alcuni tra i nostri più cari compagni di strada. Profeti nel vero senso della parola.
Enrico Peyretti

Forse, il legato di Balducci, politico, culturale ed ecclesiale, è l’umanesimo euro-occidentale francescanamente spogliato della violenza e della superbia.
C’è una forma di violenza filosofica, quasi metafisica, che produce questi effetti: la teoria della natura irrimediabilmente egoista e violenta dell’uomo (Balducci lo chiamava il “sofisma machiavellico”), per cui può esserci convivenza e pace solo se imposta da una forza più violenta; la “ragione armata” dell’Occidente (Panikkar assegnava alla filosofia il compito primario di “disarmare la ragione armata”); la religione impegnata e fissata più sul male che sul bene, quindi con una teologia violenta. Un umanesimo spogliato ritrova quella povertà-verità, quella immagine originaria dell’uomo, ricomparsa in Cristo, “immagine visibile e trasparente dell’invisibile volto di Dio, immagine alta e pura del volto dell’uomo come lo ha sognato il cuore di Dio” (dal Credo, di Michele Do).
Riascolto qui tre frasi di Balducci: 1. Non sono che un uomo; 2. La Chiesa è l’umanità; 3. Dio viene nel diverso.
“Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”. (Balducci, L’uomo planetario, Camunia 1985, p. 203). Cioè: il cristiano diventa uomo, nella somiglianza a Cristo; uomo planetario, insieme a tutti, plurale, inedito, nascosto.
La Chiesa è l’umanità: “Il popolo di Dio è il luogo in cui ciò che avviene nell’umanità nel suo insieme acquista una consapevolezza messianica” (Balducci, Il cerchio che si chiude, intervista autobiografica a cura di Luciano Martini, Marietti 1986). La Chiesa non è un recinto di esclusiva salvezza, ma è seme, lievito, sale, luce diffusa da Cristo in tutta l’umanità in modi vari, come il sole dà ad ogni cosa il suo proprio colore, non lo stesso colore.
Dio viene a noi nell’altro: “Ecco cosa mi dico: il Cristo viene a te sotto le specie sacramentali del diverso: la donna, l’operaio, il nero, il musulmano, il buddista ecc. Il Dio di Gesù Cristo è nascosto in ogni diversità, egli è il Santo”.
In questo triplice spogliamento, semplificazione, povertà, albeggia la “mutazione antropologica” attesa e intravista da Balducci, che avvicina ciascuno all’umanità di tutti, e non permette più di contrapporsi e sovrapporsi.
Questa mutazione, che è anche conversione evangelica della religione, è un forte antidoto alla violenza filosofica, metafisica. Mi soffermo su quell’effetto della religione ossessionata e impegnata più sul male che sul bene.

Il volto del bene
Si pone una domanda: “Le religioni, e le nostre Chiese cristiane, credono più al male o più al bene?”. Penso davvero che le religioni, in generale, aiutino miliardi di persone a vivere una vita buona, a camminare nel bene. Ma molti, anche tra i cercatori del bene, vedono nelle religioni l’opposto di ciò che proclamano.
Le persone religiose hanno il senso del male, e molto: ne soffrono, lo denunciano (e la denuncia del male è già positiva, perché risveglia nelle coscienze sensibili il desiderio del bene), lo combattono. Forse il male va interpretato, più che combattuto. Il male rivela il bene, perché non vedremmo che è male se non avessimo l’intimo criterio del bene. Altrimenti sarebbe “normale”. Ci fa male perché conosciamo il bene, siamo nati nel bene.
Nel combattere il male c’è un rischio serio: esso contagia col proprio fascino, come lo sguardo della Medusa, anche chi lo odia e lo combatte. Anzi, più lo combatti, più ti può avvinghiare. Le religioni si corrompono quando usano il male contro il male, naturalmente per la vittoria del bene! Il desiderio del bene, la sua ricerca sincera allora cede all’uso del male “a fin di bene”. Per questo Tolstoj vede il culmine del Vangelo nel precetto di “non resistere al male” (Mt 5,39), cioè non entrare nel suo gioco, nella competizione che ti impone le sue regole.
“Non fate nulla a fin di bene, fate il bene”, dice il Celestino V di Silone (L’avventura di un povero cristiano). Il Grande Inquisitore di Dostoevskij, che è l’anti-Celestino, toglie la libertà data da Dio agli uomini per costringerli al bene e alla felicità, a costo di condannare di nuovo Cristo. Quando la Chiesa usa il braccio secolare dello Stato e la forza delle sue leggi per salvare il bene imponendolo, cede alla terza tentazione superata da Gesù, e adora Satana che le offre la potenza (Mt 4, 8-10).
Per questo la nostra religione, è tarda e lenta a comprendere e abbracciare la nonviolenza: spesso non supera la mentalità dominante, che la intende come debolezza e resa. La nostra Chiesa ha tardato vergognosamente a riconoscere la forza nonviolenta degli obiettori di coscienza all’arte dell’uccidere. La religione loda la nonviolenza come il non-fare-personalmente-violenza, ma non la sposa davvero come positivo satyagraha, forza politica dell’amore, forza della tensione-alla-verità, forza dei poveri resistente e più vitale della violenza dei potenti, quella che è stata la forza vitale di Gesù sopra la morte iniqua e atroce inflittagli dalla potenza religioso-politica. Se lo facesse, la religione si dissocerebbe da ogni impero, per amore della vita.

La nonviolenza
Se non sceglie la forza positiva della nonviolenza per amore, una religione finisce per affidarsi nei fatti più al male che al bene dichiarato. Dove invece cresce la fede nel Bene vivente, diminuisce la paura del male, paura che istiga alla condanna, allo sterminio, alla pulizia etnica, alla “guerra giusta”, al “malicidio” e, per far questo, si copre di una teologia violenta, attribuendo e intestando a Dio la nostra impaurita violenza. Così fa inizialmente anche la Bibbia: un Dio che fa male a chi fa male, o a chi non si assoggetta a lui; questa è la “teologia penale” (diceva Pietro Prini) dell’inferno eterno, già acceso nei roghi. Ma la Bibbia procede ben oltre: Gesù rappresenta un Dio padre e fratello, non un padrone spietato. Alla teologia violenta corrisponde l’antropologia del male: l’uomo nato nel peccato invece che dal soffio di Dio.
Da qui vengono la debolezza e i compromessi religiosi – sia privati sia istituzionali – con la moderna economia teologizzata, idolo della crescita infinita, politica senza alternative al dogma dell’unica salvezza nell’avere, organizzazione che rapina ai più poveri i beni di tutti. Troppa religione è rassegnata all’anti-condivisione, cioè all’anti-eucaristia sistematica. L’eucaristia, che è condivisione totale, se viene pensata come sacrificio punitivo e vendicativo per la salvezza dell’umanità, non è più la vita di amore “fino in fondo”, che fu di Gesù. Helmut Fischer (in Era necessario che Gesù morisse per noi?, Claudiana 2012) vaglia le diverse interpretazioni della morte di Gesù, in base a paradigmi sacrificali e padronali, che ormai la cultura dei diritti umani rifiuta. Oggi, anche il sacrificio degli ultimi e dei deboli, organizzato nei sinedri atei e nei palazzi dei governatori – cioè la finanza senza volto che decide sui popoli – viene spacciato come l’unica via necessaria per la salvezza economica della società umana. La religione condannò il comunismo ateo e violento, ma anche il privatismo ultraliberista è violento e molto a-teo, a-umano.
I profeti del nostro tempo, come Balducci, Turoldo, Tonino Bello, li abbiamo incontrati nel filone religioso non dei comandamenti contro il male – avvisi pur necessari per evitarne l’attrazione – ma sulla via dei comandamenti della speranza nella realtà del bene, annunciatori e apri-strada del bene. Pur nelle tragedie e nei muri chiusi della storia, essi ci hanno suggerito con sapienza spirituale e intelligenza profetica, che l’uomo inedito è nascosto in noi, che il seme evangelico fermenta e rafforza le aspirazioni umane alla giustizia, salvandole dalla disperazione, e che la pace giusta è possibile.

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