Il Concilio dei poveri
Uno degli argomenti che venivano sollecitati da tutti i vescovi partecipanti al Concilio Vaticano II (i “Padri conciliari”) era quello de “la Chiesa dei poveri”. Non era un tema proposto ufficialmente, anche se papa Giovani XXIII aveva in antecedenza puntualizzato che “il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre, ma soprattutto oggi, il mistero del Cristo nei poveri, poiché la Chiesa è sì Chiesa di tutti, ma soprattutto Chiesa dei poveri”.
È vero che, nella storia, la Chiesa è sempre stata “per i poveri”, quasi che i poveri fossero i beneficiari esterni di una Chiesa che non è loro. E, invece, si indicava ora che i poveri devono sentirsi non “oggetto” della carità della Chiesa, ma “soggetto” della Chiesa stessa, parte attiva nella costituzione della mentalità e dell’operatività. E questo anche sul piano ecclesiale, dato che l’organizzazione della Chiesa universale, sia sul piano dell’elaborazione delle dottrine come sul piano delle strutture operative, appariva tutta in mano all’Europa, con l’annessione del Nord America, riducendo gli altri territori – il cosiddetto Terzo Mondo – a beneficiari della Chiesa del Primo Mondo.
V’erano in realtà forti sollecitazioni a far emergere questo tema, sia in vescovi – come il brasiliano Helder Camara – che si facevano portavoce delle situazioni e delle attese dei Paesi della povertà (prima chiamati “sottosviluppati”, ora “in via di sviluppo”) di fronte a una Chiesa interpretata dai popoli più benestanti, sia in persone – ed emergeva il francese Paul Gauthier, che aveva fondato a Nazareth il gruppo dei “Compagnons de Jesus”, falegnami come Lui – che ne rilevavano invece un’esigenza di conformazione all’insegnamento del Vangelo e all’esempio di Gesù.
Tali aspirazioni avevano trovato ospitalità al Collegio belga di Roma, per l’interessamento del card. Suenens, arcivescovo di Malines-Brussels, e soprattutto di mons. Himmer, vescovo di Tornai. Questo movimento aveva cercato di coinvolgere anche il card. Lercaro, arcivescovo di Bologna, di cui si sapeva che teneva in casa giovani poveri come la sua famiglia, ed era molto impegnato per la liturgia, verso la quale aveva sempre sentito attrazione sul piano della cultura come su quello pastorale, sino a chiamare a Roma don Giuseppe Dossetti perché seguisse questo cammino. Dalla loro collaborazione – card. Lercaro e don Dossetti – era nato, il 6 dicembre 1962, all’antivigilia della chiusura della prima sessione, un intervento che rimase punto di riferimento per lo sviluppo del tema. Il cardinale, infatti, nel presentare in maniera completa i motivi teologici della Chiesa dei poveri, metteva in luce anche la particolare attualità, in un tempo in cui i poveri sembrano essere meno evangelizzati (e perciò cercano altrove motivi di speranza), mentre i poveri – singoli e popoli – prendono coscienza per la prima volta dei loro diritti, “in un’epoca – precisava il card. Lercaro – in cui la povertà dei più (due terzi del genere umano) è oltraggiata dalle immense ricchezze di una minoranza; tempo in cui la povertà ispira alle masse un orrore ogni giorno più grande e in cui l’uomo carnale conosce la sete delle ricchezze”.
Membri privilegiati
Il cardinale non chiedeva che l’evangelizzazione dei poveri fosse aggiunta come un ulteriore tema del Concilio, bensì che illuminasse la trattazione dei vari argomenti che il Concilio stesso avrebbe trattato; chiedeva che si sottolineasse l’eminente dignità dei poveri in quanto membri privilegiati della Chiesa; che si mettesse in luce la connessione ontologica tra la presenza del Cristo nei poveri e le altre due più profonde realtà del mistero del Cristo nella Chiesa (cioè la presenza del Cristo nell’azione eucaristica e nella sacra gerarchia); richiedeva, infine, che anche sull’elaborazione degli schemi sulla riforma delle istituzioni ecclesiastiche e dei metodi di evangelizzazione trovasse posto e fosse messa in luce la connessione storica tra il riconoscimento leale e attivo dell’eminente dignità dei poveri nel regno di Dio e nella Chiesa e la nostra capacità di discernere gli ostacoli, le possibilità e i metodi di adeguamento delle istituzioni ecclesiastiche.
Il cardinale portava anche qualche esempio concreto di questi orientamenti (limitazione nell’uso dei beni materiali, nuovo stile di vita nella gerarchia, un nuovo comportamento in campo economico…), ripresi e sviluppati da altri Padri conciliari, come ad es. dal vescovo ausiliare di Lione, mons. Ancel (che aveva fatto il prete e il vescovo lavoratore) questi ribadiva i “segni dei tempi” (diffidenza reciproca tra individui e popoli poveri e la Chiesa) e indicava linee di sviluppo (dall’animo di povero all’azione istituzionale, dal momento – commentava amaramente – che “il mondo d’oggi è una macchina per fabbricare i poveri”); suggeriva anche consegne per l’evangelizzazione dei poveri (presenza, speranza, universalismo nell’amore), per l’evangelizzazione dei ricchi (amore, spogliamento, azione con l’anima di povero), per lo stile della Chiesa (rinuncia ai trionfalismi, indipendenza da ogni potere politico o sociale, impegno a farsi immagine vera di Cristo).
Nei documenti
Non si arrivò a un documento specifico sulla Chiesa dei poveri: non va dimenticato che i vescovi più impegnati nel rinnovamento conciliare sul piano dottrinale erano i vescovi dell’Europa centrale (tedeschi, francesi, belgi, olandesi), quindi dei Paesi più sviluppati, non sempre coinvolti nelle culture e nelle situazioni sociali degli altri Paesi (non a caso la “scelta preferenziale dei poveri fu proposta nel 1968 in Colombia a Medellin, dai vescovi dell’America Latina, il Continente più cattolico ma anche più provato da ingiustizie e povertà). Furono però inserite frasi significative nei vari documenti, a cominciare dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa, in cui (Lumen Gentium, 8) si sottolinea che “come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo la natura di servo” (Fil2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare gloria sulla terra, bensì per diffondere, soprattutto col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione…come Cristo… così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende servire a Cristo”.
Questa strada della povertà e dell’attenzione ai poveri, ribadita nel capitolo sull’universale vocazione alla santità nella Chiesa (LG 41f), viene richiamata nell’attività ecumenica (UR, 12) e in quella missionaria (AG, 5), viene proposta ai sacerdoti (PO, 6c), ai religiosi (PC, 13a), ai laici (AA,8c), come motivo di identificazione a Cristo e come motivo di solidarietà e di giustizia.
Scelta di povertà
Tra i vescovi iniziò a diffondersi la convinzione che avrebbero dovuto essi stessi dare l’esempio e assumersi l’impegno per uno stile di maggiore povertà nella Chiesa. Il documento che venne elaborato fu chiamato lo “schema 14”, dato che 13 erano i documenti fino ad allora in discussione. Poiché il 16 novembre 1965 venne celebrata nella Basilica di Domitilla, sopra le Catacombe omonime, una S. Messa presieduta dal belga mons. Himmer e da 40 vescovi, è stato conosciuto come il “Patto delle Catacombe”, che fu poi sottoscritto da oltre 500 vescovi (altri forse l’avrebbero firmato se l’avessero conosciuto) e fatto giungere al Papa.
In tredici capoversi c’è l’impegno a una vita più semplice, senza realtà e apparenza di ricchezza, con rinuncia a privilegi e a vanità, affidando la gestione finanziaria a laici competenti e coscienti della responsabilità apostolica. Poi l’impegno “al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi dei lavoratori, degli economicamente deboli e dei sottosviluppati”, sostenendo i “laici, i religiosi, i diaconi, i sacerdoti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai partecipando alla vita operaia e al lavoro”, cercando di “trasformare le opere di beneficenza in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia”, facendo di tutto perché i responsabili dei governi e dei pubblici servizi “decidano e mettano in attuazione le leggi, le strutture e le istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo organizzato e totale di ogni uomo e perciò stesso alla realizzazione di un ordine sociale nuovo”, concludendo con impegni di solidarietà, sia sul piano internazionale come all’interno delle proprie nazioni e delle proprie diocesi.
Questi fermenti e questi impegni non hanno in real-tà avuto tutta la vitalità e i frutti attesi.
Confidiamo che il cinquantesimo dell’inizio del Concilio sia un’occasione di riflessione e di rilancio, anche perché la “nuova evangelizzazione”, che sta tanto a cuore al Papa e alla Chiesa italiana, non richiede tante nuove formule o nuovi programmi, quanto un amore e un’attuazione più convinta e più estesa verso la semplicità e la povertà, a tutti i livelli. Paolo VI ammoniva che il mondo d’oggi, più che i maestri, cerca dei testimoni!