Scendiamo in piazza
Perché demonizzare l’oppositore?
Il nuovo millennio ha riportato al centro della scena politica su larga scala il dissenso e la piazza: dalle grandi manifestazioni contro i G8 alla cosiddetta primavera araba, dalle proteste degli indignati di diversa età ed estrazione al riesplodere, sull’onda della crisi, del conflitto sociale. Ed è parallelamente accaduto ciò che spesso si è visto nella storia: la protesta, celebrata e sostenuta se lontana e non esportabile, è stata mal tollerata e non di rado brutalmente repressa quando si è manifestata a casa propria… Così per esempio, nel nostro Paese, la (sacrosanta) vicinanza al risveglio democratico nei Paesi arabi o alla dissidenza contro l’oppressione cinese e il dispotismo putiniano si è accompagnata, senza apparente imbarazzo, alla mattanza della Diaz e di Bolzaneto, alla sordità alle istanze di ampie aree sociali, al riemergere di politiche di ordine pubblico stile anni Cinquanta.
Cosa sta, dunque, accadendo? In particolare, è in atto oppure no una involuzione autoritaria del sistema, come alcuni (pochi in verità) denunciano? Conviene procedere con ordine.
Conflitto e repressione
Il conflitto sociale è inevitabile, soprattutto nei momenti di crisi. Di più, esso è la fonte e il motore delle più significative trasformazioni della società in senso democratico. Nonostante ciò al conflitto si è sempre associata, in maggiore o minor misura, la repressione: perché non si danno, nella storia, rinunce spontanee a posizioni di potere e perché la tutela dello status quo prevede, di regola, anche l’uso della forza.
In epoca liberale e durante il fascismo, oggetto della repressione è stato, nel nostro Paese, il conflitto tout court. Si collocavano in questa dimensione istituti giuridici e interpretazioni giurisprudenziali in tema di domicilio coatto, di “associazione di malfattori” (ripetutamente contestata ad anarchici e socialisti), di eccitamento all’odio di classe (ritenuto sussistente, da alcune sentenze, in espressioni come “abbasso la borghesia, viva il socialismo!” o addirittura nel semplice canto dell’inno dei lavoratori), di concorso nel reato dilatato a dismisura e così via.
Questa impostazione è stata superata dalla Costituzione del 1948, in particolare con le norme in tema di libertà di riunione, libertà di associazione, libertà di manifestazione del pensiero, diritto di sciopero (artt. 17, 18, 21 e 40). Con la Costituzione il conflitto sociale non è uscito, ovviamente, dall’orizzonte della repressione. Ma l’intervento repressivo è stato previsto non più per il conflitto in sé bensì per specifiche manifestazioni di violenza da esso originate o che in esso emergono. È stata una rivoluzione copernicana sul piano dei princìpi e anche, seppur in misura assai minore e con molte resistenze, nella prassi. Sta di fatto che, dopo i primi vent’anni di inadempienza costituzionale e di conflitto aspro (in cui si sono contati, sulle piazze, oltre cento morti), gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati caratterizzati da una certa pace sociale e anche il rigore repressivo della legislazione ha subìto significative incrinature (simboleggiate, in ultimo, dalla – provvisoria – abrogazione del reato di oltraggio e di quello di blocco stradale, avvenuta nel 1999).
Poi, come si è detto, è riesploso il conflitto, con nuovi attori (non più le grandi organizzazioni di massa, ma movimenti eterogenei e plurali) e nuove modalità. E la società del pensiero unico, sorpresa e spaventata, ha cambiato atteggiamento, sia sul versante della cosiddetta prevenzione speciale che su quello della repressione, seguendo modelli già sperimentati – e con durezza – per la devianza di strada e la marginalità sociale (si pensi alle politiche in tema di tossicodipendenza e alla disciplina dell’immigrazione).
Le lezioni della storia
La protesta e la piazza portano con sé, da sempre (basta leggere, nei Promessi sposi, le pagine relative all’assalto al forno), momenti – più o meno estesi – di violenza. Non è un bene ché le dure lezioni della storia hanno dimostrato che sempre i nuovi assetti politici e istituzionali sono irrimediabilmente segnati dal surplus di violenza che li ha generati. Ma questa è la realtà, che non può essere esorcizzata e va piuttosto affrontata con razionalità e lungimiranza.
La “demonizzazione” dell’oppositore, spinta fino alla costruzione di un apposito diritto del nemico, infatti, non giova e, anzi, produce effetti boomerang. Perché – come è stato scritto da F. Palazzo – “un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società”.
Eppure, questa è la strada imboccata in questi ultimi anni.
Prevenzione?!
Si è cominciato con una serie di anomale misure di prevenzione speciale, tese a impedire la stessa possibilità del manifestarsi del conflitto.
Siamo in Campania, nel 2007-2008. I rifiuti si accumulano per le strade e le immagini del degrado si diffondono in tutto il mondo offuscando l’immagine di straordinaria efficienza che il presidente del Consiglio si è costruito. Così, immemori dei precedenti fallimenti, si ripropongono nuovi inceneritori e discariche. Come agevolmente prevedibile, esplode la protesta e le immagini delle barricate si aggiungono a quelle del degrado. Bisogna, dunque, intervenire per vincere la resistenza di una popolazione ostinata e irragionevole. Nasce così il decreto legge n. 90/2008, il cui art. 2, nei commi 4 e 5, detta: “I siti, le aree, le sedi degli uffici e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale, per le quali il Sottosegretario di Stato provvede a individuare le occorrenti misure, anche di carattere straordinario, di salvaguardia e di tutela per assicurare l’assoluta protezione e l’efficace gestione. Fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale”.
Il salto di qualità del controllo preventivo è pari solo alla genericità delle nuove previsioni (una per tutte: che cosa significa “rendere difficoltoso” l’accesso a una discarica o a un ufficio?).
Ma è solo l’inizio. Due anni dopo il sindaco di Roma Alemanno, all’indomani dell’imponente corteo degli “indignati” del 15 ottobre 2011, teatro (anche) di gravi episodi di violenza, emette due ordinanze che vietano per un mese i cortei in città. L’illegittimità delle ordinanze è di rara evidenza (come sancirà, mesi dopo, il Tar Lazio), ma, intanto, un nuovo modello di controllo preventivo si va diffondendo, con il seguito di un crescendo di proposte aggiuntive sino a quella di introdurre una sorta di “conflitto sociale a pagamento” (attraverso la previsione della possibilità di manifestare solo previo versamento di una somma di denaro a copertura di eventuali danni cagionati nel corso dell’iniziativa)… Non solo, ma l’azione congiunta di una nuova legge (fatta a immagine e somiglianza di quella citata) e di incredibili ordinanze prefettizie reiterate per mesi (soprattutto in prossimità di manifestazioni), trasforma il cantiere previsto per l’inizio dei lavori del Tav in Val Susa in un fortino extraterritoriale a cui è vietato persino avvicinarsi.
L’ordine pubblico
Inutile dire che quelle misure criminalizzano chi non le osserva, ma non eliminano protesta e conflitto che, anzi, si inaspriscono. Così ampie aree di opposizione politica e sociale vengono abbandonate dalla politica e trasformate in problemi di ordine pubblico da demandare alla gestione di polizia e magistratura. Inevitabile l’emergere di torsioni e forzature.
Accade sotto tutti i cieli che in situazioni siffatte si chieda alla magistratura di “non andare troppo per il sottile” e di rifuggire dalle pastoie del garantismo. Un esempio per tutti: nello scorso agosto i riots di Londra hanno portato a migliaia di arresti a cui sono seguiti, su esplicita richiesta del Governo, processi celebrati senza sosta, di giorno e di notte, con dibattimenti della durata media di un quarto d’ora e con condanne esemplari (è stata la prima pagina del Times del 17 agosto a segnalare “la condanna a quattro anni per una rivolta che non c’è stata”, pronunciata nei confronti di due ventenni rei di avere immesso su facebook l’invito a convergere, per unirsi ai disordini, in un luogo rimasto indenne da scontri). Qualcosa di simile sta accadendo anche nel nostro Paese di fronte alle ondate di proteste che lo percorrono: condanne a pene esemplari per fatti di ridotta gravità, uso indiscriminato della custodia cautelare in carcere anche per reati che consentono la sospensione condizionale della pena, ricorso massiccio a contestazioni di reati gravissimi (come quello di devastazione e saccheggio pur a fronte di fatti inquadrabili nel semplice danneggiamento), estensione abnorme delle ipotesi di concorso di persone nel reato e via elencando, fino a vere e proprie perle come l’affermazione, in una recente ordinanza del tribunale del riesame di Torino, che la custodia in carcere è il “presidio minimo” (sic!) per fronteggiare le esigenze cautelari.
La risposta alla domanda iniziale è, a questo punto, possibile e obbligata. Non siamo, probabilmente, a un’involuzione autoritaria consolidata del sistema; ma certo non ne mancano preoccupanti avvisaglie (e forse qualcosa di più).