La scelta di Giulio
I popoli oppressi, diserdati. Per giungere alla scelta del popolo di Dio, letto inevitabilmente in termini di macroecumenismo e lotta di classe.
Non saprei dire quante volte chiedendo a qualcuno: “Conosci Giulio Girardi?” mi sono sentito rispondere: “Sì, l’autore di Marxismo e Cristianesimo”, testo di cui conservo gelosamente una copia, regalatami da uno zio prete quando ancora ero giovinetto. Nemmeno saprei dire, però, quante volte ho sentito Giulio lamentare: “Con tutti i libri che ho scritto, mi ricordano soltanto per quello!”. La cosa non era del tutto vera, ma certamente la fama di quel libro gli si era appiccicata come ad alcuni scrittori un romanzo o a certi attori una parte. “Rassegnati, gli dicevo, significa che hai lasciato il segno in una generazione!”. E lui: “Sarà!”, ma non era del tutto convinto. Nemmeno io del resto lo ero, perché avvertivo chiaramente come la mia teoria, sebbene veritiera, non fosse comunque esauriente. Per molti, infatti, continuava a essere il migliore dei suoi libri per il semplice fatto che non avevano letto gli altri: passata, cioè, quella stagione di grandi entusiasmi, lotte e ideali avevano mollato il colpo. Lui no. Nonostante il prezzo altissimo che dovette pagare (come ci ha ricordato l’amico Gianni Novelli, nel suo appassionato articolo, sul numero di aprile 2012 di Mosaico di pace), Giulio è rimasto imperterrito, sino alla fine, nel tentativo di trasformare la società, mediante l’ascolto dell’“altro”, chiunque esso fosse; la riflessione e la formulazione di una proposta, tanto alternativa quanto praticabile. Certo, non si può dire che facesse di tutto per assecondare l’attenzione degli ascoltatori o facilitare la comprensione ai lettori; ma in fondo anche questo era sintomo di genui-nità: convinto com’era che, per essere davvero efficaci, fosse necessario analizzare con rigore la realtà, per scoprirne i punti essenziali, le contraddizioni e le potenzialità ed elaborare così un solido progetto alternativo, non ha mai ceduto alla subdola tentazione di usare linguaggi alla moda o facili slogan, politici o spirituali che fossero.
La scelta per i popoli
Agli inizi degli anni Novanta, perciò, quando i più cantavano ormai il de profundis sulla “scelta per i poveri”, fatta dalle Chiese latinoamericane a Medellín nel 1968 e successivamente blindata dal Vaticano, in tutti i modi possibili e immaginabili (fino al punto d’essere oggetto indiretto, ma fin troppo evidente, di due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, dedicate alla Teologia della liberazione) Giulio ci invitò a svilupparla e precisarla meglio in un’ulteriore scelta “per i popoli”, da farsi alla luce del cinquecentesimo anniversario della “Conquista dell’America”. E mentre molti si sarebbero accontentati di difendere la categoria “popolo di Dio”, in una Chiesa che ormai sembrava lontana parente di quella che nemmeno 30 anni prima aveva scritto la Lumen gentium (la costituzione sulla Chiesa) e l’Unitatis redintegratio (il decreto sull’ecumenismo), lui ci invitò a iniziare un percorso che, dal rapporto fra quelle due scelte, ci conducesse a ripensare il concetto di “popolo di Dio” in chiave “macroecumenica”. Volle cioè aiutarci a capire come “i poveri con i quali ci schieriamo non sono solo individui o insieme di individui, ma anche e soprattutto gruppi sociali, comunità, popoli oppressi nelle loro aspirazioni e nei loro diritti collettivi”. E, quindi, come “optare per i popoli significhi in primo luogo riconoscere il loro diritto di autodeterminazione... [e poi] che non hanno solo il diritto di essere soggetti storici, ma anche la capacità di arrivare a esserlo. Un’opzione che è pertanto un atto di fiducia nelle risorse sconosciute (intellettuali, morali, politiche) degli oppressi e un impegno a cercare con essi le vie perché queste energie vengano scoperte, liberate e investite nella costruzione di una nuova storia”. Il che significa inevitabilmente scegliere anche tra due concezioni dell’amore: volere sì il bene dell’altro, ma come lo intendo io, oppure promuovere la libertà dell’altro, perché sia lui stesso a essere protagonista della sua storia e possa, quindi, scegliere la sua strada nella vita. Utopia? Tutt’altro! Sebbene, infatti, Giulio si sforzasse di fare bene il proprio lavoro, che era quello del filosofo e del teologo (vale a dire di colui che lavora a un livello rigorosamente teoretico) non perdeva mai di vista gli esempi concreti di alcune esperienze in atto. Due per tutte: le pastorali indigene di Samuel Ruiz in Chiapas e Leonidas Proaño in Ecuador.
Furono proprio le esperienze di diverse Chiese, soprattutto latinoamericane (dei loro pastori e di migliaia di laici e laiche impegnati fino all’eroismo) a confermare Giulio nella convinzione che la categoria di “popolo di Dio” andasse ulteriormente precisata, perché come l’aveva concepita il Concilio, contemplava ancora la copresenza acritica di oppressi e oppressori. “Si cominciò allora a percepire che la lotta di classe lacera ciascuna delle Chiese e che ancor più profondamente le lacera il conflitto Nord-Sud. Ma nello stesso tempo diventava evidente che, di fronte a questi conflitti, la Chiesa di Gesù non può rimanere neutrale, ma che per vocazione essa sta dalla parte dei poveri e degli oppressi. Per vocazione essa è Chiesa dei poveri”. Questo però obbliga a ripensare anche i criteri della stessa “appartenenza” ecclesiale, se con ciò intendiamo – e non potrebbe essere diversamente – “condivisione” del progetto di Dio in Cristo: “Ciò impone ai credenti di riconoscere che molti lottatori per la realizzazione del progetto liberatore di Dio non conoscono Dio, negano la sua esistenza e pertanto non si considerano collaboratori del suo progetto. Tuttavia lo sono… Realizzano il progetto di Dio, consciamente o inconsciamente, quanti sono impegnati in questa pratica. Essi forse non credono in Dio, ma Dio, sì, crede in loro. Il popolo di Dio così definito è protagonista di un progetto, divino e umano, antagonista rispetto all’ordine mondiale vigente. è un popolo chiamato a costruire una nuova umanità riconciliata al suo interno e con tutti gli esseri della natura”. Troppo poco forse per essere “credenti” nell’accezione comune del termine, ma certamente sufficiente per appartenere al “suo” popolo, nella logica della teo-ria del “cristiano anonimo” formulata da K. Rahner o dell’ammonizione di P. Turoldo, secondo cui: “Una cosa è credere e un’altra credere di credere; ma anche una cosa è non credere e un’altra credere di non credere”. In questo senso il “popolo di Dio” si scopre davvero macroecumenico: composto cioè da uomini e donne di etnie, culture e persino religioni diverse, accomunati dall’impegno di realizzare insieme quel progetto liberatore di Dio, che a tratti trascende la loro stessa comprensione. Condicio sine qua non sarà, ancora una volta, la disponibilità ad assumere consapevolmente il punto di vista degli oppressi impegnati a riscattare la propria libertà: non solo perché è quello moralmente, socialmente e politicamente più giusto (in quanto “l’emarginato ha interesse a smascherare la violenza della quale è vittima e a far trionfare la luce…”), ma anche perché fu l’opzione di Gesù: “Lo Spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione…” (Lc 4,18). Restava (e resta!) il problema dei mezzi. Anche in questo la parabola di Giulio è esemplare, perché come pochi altri della sua generazione ha saputo camminare con la storia ed evolvere dalle simpatie per la lotta armata degli anni Settanta e Ottanta alla rivoluzione pacifica degli ultimi decenni, passando – come ci ricordava Gianni – dallo studio del pacifismo di Gandhi, fino al progetto di elaborare una vera e propria teologia cristiana della pace. Gliene è mancato il tempo, riuscendo solo a lasciarci alcuni scritti sulla pace in Gesù. È questo, però, il suo lascito più grande: il compito di sviluppare quell’intuizione, con lo stesso rigore, la stessa passione, la stessa disponibilità al sacrificio che l’hanno sempre caratterizzato, ma anche e soprattutto – ne sono certo – la raccomandazione di essere il più possibile originale.