La lezione di Taranto
Come uno spartiacque. Che separa un prima e un dopo. Un dopo traumaticamente diverso dal prima. Questo è il segno profondissimo destinato a lasciare la vicenda dell’Ilva, nella sua straordinaria complessità e nella sua estrema tragicità. Perché quando si parla di migliaia di vite umane costrette nella morsa crudele tra cancro e disperazione, allora è tragedia. Senza mezze misure.
All’Ilva sta andando in scena un conflitto crudele. Come in un gioco a somma zero le ragioni si contrappongono incomponibili: l’affermazione dei diritti alla tutela dell’ambiente e della salute può accadere solo a scapito di quelli del lavoro e della produzione, e viceversa. L’uno vince solo se l’altro perde. Il percorso per immaginare un gioco a somma variabile, che renda possibile una strategia vinci-vinci, in cui le ragioni dell’ambiente, della salute e della produzione siano ri-composte virtuosamente, sembra inaccessibile. Il conflitto è andato troppo avanti, la situazione è troppo lacerata, le divaricazione tra la città e gli operai troppo radicalizzata.
Eppure il conflitto, nonostante le numerose micce accese, non esplode. Certo, il filo resta tesissimo e ogni giorno sembra sul punto di spezzarsi. Però non si è spezzato. E questo è un dato. Il dato. Inedito e cruciale. Decisivo. In altri tempi, in altri contesti le piazze si sarebbero già incendiate, con conseguenze laceranti. E, invece, no. Come funamboli si prova a camminare, sospesi nel vuoto, sulla corda di una soluzione possibile.
Come si spiega?
I deterrenti che stanno evitando, nonostante gli animi surriscaldati, l’esplosione del conflitto possono essere due. Da un lato la consapevolezza delle reciproche ragioni legittime in entrambi i fronti. Dall’altro la constatazione della gravità ultima di un’eventuale deflagrazione del conflitto. Se esplode il conflitto non c’è un dopo.
Insomma, siamo in una situazione estrema. Che richiede un approccio completamente nuovo al conflitto. Ed è questo il vero fatto nuovo. Siamo abituati, culturalmente e psicologicamente, di fronte al conflitto a prendere posizione e, quindi, a erigere le barricate per difenderle. Il conflitto come contrapposizione, come scontro frontale tra ragioni che si pongono il fine di prevalere, anche a costo di prevaricarsi.
Ma questa volta è un’altra storia. I lavoratori hanno sacrosante ragioni, come, peraltro, quelle ancora più sacrosante dei cittadini. E hanno anche ragione i magistrati con il loro coraggioso (e indispensabile, finalmente!!!) lavoro inquirente, e i governi nazionale e regionale per la determinazione inedita con cui stanno affrontando le questioni. E, persino, il nuovo corso dell’Ilva, riconoscendo per la prima volta le proprie responsabilità, ha pure qualche ragione a rivendicare del credito che finora non ha fatto nulla per meritarsi.
Dunque, questo conflitto, se scivolasse nella cristallizzazione delle avverse logiche, non potrebbe che deflagrare, con effetti catastrofici. Devastanti. Per questa ragione, il conflitto sull’Ilva non può finire come gli altri.
E, dunque, questa consapevolezza sta offrendo un’opportunità strettissima, e tuttavia possibile, per concepire una mediazione inclusiva. Non attraverso la negazione delle ragioni dell’altro, si potrà sconfiggere la minaccia posta alla città dal mostro del vecchio siderurgico. Ma da uno sforzo straordinario di tutte le energie sociali, capace di elaborare una relazione positiva e non distruttiva tra industria, ambiente e città. Una nuova idea di sviluppo, insomma. Per il cui compimento è necessario rivoluzionare, letteralmente rivoluzionare, il ruolo di tutti gli attori sociali.
Ed è quello che sta avvenendo. Che può avvenire. La straordinaria cooperazione tra le istituzioni della politica, la rispettosa dialettica con l’organo giudiziario, la maturità dei lavoratori e dei sindacati, la compostezza della mobilitazione della cittadinanza attiva sono preziose premesse per scrivere a Taranto una risposta inedita a un conflitto apparentemente irriducibile. Con un valore generale.
I messaggi per la politica sono fortissimi. E di duplice natura. Riguardano la sua responsabilità e il suo ruolo. La sua responsabilità nell’affrontare i problemi, troppo a lungo rinviati e che, in un tempo inesorabile di crisi, riemergono in modo drammatico. Il compito della politica è risolvere i problemi alla radice e il tempo non è una variabile dipendente dalla nostra inerzia. E, poi il suo ruolo privilegiato di spazio per la composizione delle domande sociali, per la mediazione degli interessi collettivi. Se quello spazio, invece che essere agito dagli interessi pubblici, si lascia risucchiare dai vortici della consociazione lobbistica dei gruppi di affari, allora i problemi si deteriorano gravemente e le domande si frammentano conficcandosi come schegge purulente nel tessuto della comunità.
Troppo a lungo ci siamo rassegnati a concepire la politica come esercizio della contrapposizione piuttosto che come paziente e rigorosa tessitura di mediazioni nobili. La contrapposizione, alla lunga, approda sempre sulle sponde sicure della consociazione: quando la tempesta dello scontro produce paralisi, la consociazione rappresenta l’unico patto possibile per dissimulare le responsabilità diffuse. Tutti dentro, nessuno protesta e chisseneimporta che il problema resta lì, incancrenito. Anche la versione tribale del bipolarismo di questo lungo ventennio rientra nel medesimo schema. La contrapposizione, mentre ha sbarrato la strada alla mediazione sulle grandi riforme, di cui ha disperato bisogno il nostro Paese, ha dissodato il campo perché allignasse la gramigna della coltura consociativa secondo la quale l’interesse generale non è altro che la composizione dei più egemoni microinteressi particolari. L’Ilva come la metafora cruda di un Paese che scivolato troppo a lungo sulle contraddizioni più gravi.
Tenere al centro i problemi e le sfide poste dalla loro soluzione, invece che i ruoli e le parti in commedia, diventa necessario e ineludibile se la realtà non ti lascia scampo. O ciascuno fa la parte giusta o si affonda insieme. E quando si affonda, le ragioni non contano più nulla.
Le sfide terribili di questo mondo che cambia, non possono che essere affrontate da una politica che chiami a raccolta le energie vitali di una società piuttosto che limitarsi ad assistere, o come testimone passivo o come complice, alla loro disgregazione.
Questa è la lezione che Taranto può dare al nostro Paese.