Tra armi e lavoro
E si può, invece, riprendere a parlare di riconversione. Anche dell’industria bellica.
A dispetto di quello che si pensa comunemente la parola “armi” non fa quasi mai rima con “lavoro”. Viceversa fa sempre rima con “affari”. Ma questa è un’altra storia. Ci sono persone più esperte di me che possono documentare l’export e i traffici d’armi, gli indefiniti confini tra lecito e illecito, il crocevia d’interessi geo-politici ed economico-finanziari affollato di faccendieri e uomini di Stato, criminali e manager affermati.
Nella mia vita ho fatto l’operaio e il sindacalista, il formatore e ricercatore precario. Da quando mi sono interessato – dal 1978 – dell’industria che produce armamenti, ho imparato che la realtà è spesso diversa da come appare.
In questo settore, nonostante l’aumento imponente delle spese militari, del commercio internazionale di armi e dei fatturati delle aziende che le producono, l’occupazione è in continuo calo. Nella migliore ipotesi, solo per alcune aziende o per brevi periodi, l’occupazione è stabile.
Per tanti anni, in Italia hanno creduto che Finmeccanica, spostando il suo baricentro nel militare, godesse d’ottima salute e che Pier Francesco Guarguaglini fosse un ottimo manager. In realtà ciò che era “miele” per il management e per gli azionisti, non lo era in assoluto né per la politica industriale, né per l’innovazione, né per i lavoratori.
Nel corso degli ultimi mesi, infatti, stanno emergendo in alcune delle aziende di Finmeccanica forti criticità sul piano industriale e occupazionale. Si parla di circa 4mila persone in meno all’Alenia Aeronautica, mentre migliaia di posti di lavoro stanno saltando nel comparto dell’elettronica della difesa. E questo pochi anni dopo che ministri, sottosegretari, capi di stato maggiore parlavano della creazione di almeno diecimila posti di lavoro in più nel complesso dell’industria aerospaziale e della difesa.
La mia confutazione dell’assioma “più armi più lavoro” era (ed è) basata sia sull’osservazione empirica di ciò che succedeva nell’industria a produzione militare, sia sull’analisi dell’andamento dei fatturati e dell’occupazione nell’industria aerospaziale a livello europeo, in un arco temporale di 25-30 anni, più che sufficienti, in economia, per comprovare una tesi.
Basandosi sui dati del rapporto annuale dell’ASD (AeroSpace and Defence Industries Association of Europe), l’industria aerospaziale europea è passata da 579 mila nel 1980 a 468 mila occupati nel 2008, mentre il fatturato a valori costanti è più che raddoppiato.
Disaggregando la parte militare dal totale, il risultato è sorprendente: i lavoratori sono passati nello stesso periodo da 382 mila a 190 mila (il 50% in meno). L’occupazione in campo civile, invece, è cresciuta da 197 mila a 277 mila (il 40% in più).
Chi conosce il settore sa che, dietro ai numeri, c’è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo, nel quale il nostro Paese ha fatto la colpevole scelta di non partecipare, condannandosi a un ruolo di semplice sub-fornitore dell’industria aeronautica americana.
Non aver partecipato come partner di primo livello alla realizzazione di Airbus è costata la marginalità dell’industria italiana nella ideazione, sviluppo e produzione di aerei civili. Ma è costata molto anche in termini di mancata creazione di posti di lavoro. Infatti, mentre nel resto d’Europa, al calo degli occupati nel militare è corrisposta una crescita nel civile (+40%), in Italia si sono persi percentualmente (-50%) gli stessi posti di lavoro nel militare senza alcuna crescita nel civile (tranne che nell’elicotteristica).
Investimenti e lavoro
I dati non si possono prendere a schiaffi. Pur mettendo da parte l’aspetto etico, anche sul piano economico-sociale è smentito chi sostiene gli investimenti in campo militare per ragioni occupazionali. E non solo perché le stesse risorse impiegate in campi civili garantirebbero più posti di lavoro e incrementi della produttività del sistema economico in generale (tesi ampiamente documentata), ma perché la realtà analizzata nel caso dell’industria aerospaziale dimostra che, nonostante si sia verificata una crescita imponente delle spese militari nel mondo, il numero degli occupati nel settore della produzione militare non è aumentato, anzi ha subito un’accentuata contrazione (ed è destinato a contrarsi ulteriormente).
Ciò dipende da tre diversi fattori.
Il primo è un fattore comune ad altri settori dell’industria manifatturiera, dalla siderurgia all’elettronica. È la crescita costante del fatturato per addetto che nell’industria aeronautica è aumentato dal 1980 al 2009 del 140 per cento (passando da 90 mila a 215 mila euro per occupato).
Il secondo fattore, anche questo comune al resto dell’industria, è la riduzione del numero di occupati per effetto dei processi di fusione, ristrutturazione e innovazione tecnologica su scala europea e mondiale, sollecitati dall’integrazione regionale e dalla globalizzazione.
Il terzo, invece, è un fattore specifico riguardante l’industria militare, definito tecnicamente “disarmo strutturale”. È un fattore indotto sì dall’innovazione tecnologica incorporata nei nuovi sistemi d’arma (dai nuovi materiali alla microelettronica) e nei processi di produzione (automazione integrata e flessibile), ma soprattutto dal consistente aumento dei costi di ricerca, sviluppo e fabbricazione. Il caso del programma JSF F35 è rappresentativo. Rispetto al costo iniziale di 62 milioni di dollari per aereo previsto dalla Loockeed Martin si è arrivati a 170 milioni di dollari del gennaio 2011. Costi che sono destinati ancora ad aumentare, per i ritardi nel progetto e per la riduzione prevista degli ordinativi.
Ne deriva un aumento dei costi unitari per sistema d’arma, che significa una diminuzione, a parità di spesa, della quantità d’armi che può essere acquistata dalle Forze Armate. Questa tendenza spinge in una sola direzione: contrazione dei volumi (non del valore) di mercato e ulteriore sovra capacità produttiva dell’industria militare europea.
È facile prevedere, infatti, per le imprese leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna, un’accelerazione dei processi di concentrazione su scala europea e interatlantica. Le nuove acquisizioni, fusioni, joint-venture, alleanze internazionali comporteranno, inevitabilmente, una nuova riduzione delle capacità produttive, per effetto di razionalizzazioni impiantistiche, tecnologiche e di prodotto-mercato (in particolare nel comparto degli armamenti terrestri), ma anche di delocalizzazioni produttive in Paesi low-cost di tutta la filiera dell’industria aerospaziale e della difesa.
Tutti gli studi e analisi del settore avevano da qualche tempo previsto la nuova fase di riduzione degli occupati, quantificandola intorno al 30 per cento: fase che si sta aprendo in questi mesi, anche in Italia, nel Gruppo Finmeccanica con procedure di mobilità, cassa integrazione straordinaria e chiusura di attività.
In quest’ambiente solo le imprese che guidano i processi su scala europea (e quelle italiane, tranne eccezioni, hanno un ruolo comprimario) o le aziende e/o i distretti industriali che hanno accresciuto (o accresceranno) la loro diversificazione nei mercati civili (riducendo la loro dipendenza complessiva dal settore militare) sono meno vulnerabili sul lato occupazionale.
Quindi la conversione e diversificazione nel civile è oggi una scelta obbligata, oltre che per ragioni di natura etica, per motivi di politica industriale e di lavoro, al fine di tutelare l’occupazione delle persone coinvolte e di rispondere alle loro attese professionali.
Per fare questo, però, abbiamo bisogno sia di misure di sostegno alla riqualificazione professionale, all’accompagnamento verso la pensione, al trasferimento di skill e competenze in altri campi di attività; sia di misure per la reindustrializzazione di quei territori ad alta incidenza d’industria militare, favorendo un approccio territoriale alla diversificazione e riconversione nel civile (com’è stato fatto con successo nella prima metà degli anni Novanta a La Spezia).
A questo scopo va rilanciato a livello europeo un nuovo programma Konver, accompagnato da iniziative legislative nelle regioni direttamente interessate, che risponda a esigenze d’innovazione, conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare, dettate – più che da ragioni di declino del mercato come all’inizio degli anni Novanta – da processi di riorganizzazione, concentrazione, internazionalizzazione, oltre che di responsabilità sociale e comportamento etico delle imprese.