Modelli di difesa
Il Disegno di legge-delega di riforma dello strumento militare, fortemente voluto dal ministro-ammiraglio Di Paola, approvato lo scorso 6 aprile dal Consiglio dei Ministri e in discussione nella IV Commissione Difesa del Senato, costituisce un colpo mortale alla nostra Costituzione e al portafogli degli italiani.
Le parole usate dal ministro-ammiraglio per presentare questa riforma sono state infatti utilizzate come cortina fumogena per coprire i reali obiettivi che si vogliono raggiungere: Di Paola ha dichiarato che questa è “la più grande riforma dopo l’abolizione della leva”, servizio che, va ricordato, non è stato affatto abolito ma solo congelato.
Per la riforma della leva, inoltre, come per quella di Di Paola, ancora una volta non si è discusso del modello di difesa, giacché l’unica volta che gli Stati Maggiori avevano elaborato un modello di Difesa, ai tempi della prima guerra del Golfo, il progetto era stato rapidamente ritirato a causa delle vivaci reazioni da parte dell’opinione pubblica. Si parlava di difesa degli interessi nazionali in qualsiasi parte del mondo venissero messi in pericolo e di proposte di riforma, estremamente costose, dello strumento militare per raggiungere tali obiettivi.
Le critiche non hanno tuttavia condotto a rinunciare a questi obiettivi che sono stati semplicemente tradotti in provvedimenti fatti passare uno alla volta: è così che abbiamo assistito all’ingresso delle donne nelle FFAA, alla trasformazione dei Carabinieri in IV Forza Armata, e al congelamento del servizio di leva, mantenendo tuttavia un numero spropositato di militari, a regime 190.000 uomini e donne, necessario a giustificare un alto numero di graduati e numerose armi e sistemi d’arma.
Oggi, con lo strumento quasi a regime, ci si accorge che sono troppi 467 ammiragli e generali e anche i marescialli sono 30.000 in più del necessario, al punto che abbiamo più comandanti (94.829 graduati) che comandati (83.421 soldati di truppa).
Quale difesa?
Il motivo principale per il passaggio dalla leva ai professionisti non era allora quello annunciato della “maggiore professionalità” bensì della maggiore spendibilità: era sempre più evidente, infatti, l’intenzione di proiettare le nostre Forze Armate all’estero per “difendere i nostri interessi nazionali”. Se i giovani di leva fossero tornati in patria in una bara da una missione, avrebbero creato una sollevazione popolare mentre, nel caso del soldato di professione, equiparabile all’operaio che ha un incidente nel cantiere di lavoro: perdere la vita o rimanere ferito rientra nella triste contabilità delle vittime sul lavoro; né va sottovalutato che il giovane di leva, terminata la ferma, esce dal mondo militare e non ha difficoltà a raccontare quello che ha visto, mentre il militare professionista deve continuare la sua carriera nelle FFAA e mantenere la discrezione.
Ricordate il pilota che aveva osato parlare con la stampa dopo il primo raid italiano in Libia? Fu subito azzittito e abbiamo scoperto solo in seguito che gli aerei italiani avevano sganciato 710 tra bombe e missili con il 96% di successo.
Adesso il ministro-ammiraglio Di Paola vuole completare il lavoro iniziato con la riforma della leva e, ovviamente, il Parlamento non discuterà di un modello di difesa che definisca il quadro nel quale inserire lo strumento militare, perché si limiterà ad approvare una delega al Governo per attuare quanto deciso dal ministro tecnico.
Quello che ha deciso è molto semplice: lo sviluppo di una forte componente aeronavale proiettabile in qualsiasi parte del mondo a braccetto con la Nato. La portaerei Cavour, con imbarcati i cacciabombardieri F35, a questo serve e gli F35 sono progettati per lavorare in un “system of system”, cioè interagendo in un sistema controllato dagli USA il cui stile di gendarme del mondo è noto; nei fatti cediamo la nostra sovranità nazionale e rendiamo carta straccia l’articolo 11 della nostra Costituzione.
Altro aspetto non di poco conto è quello economico e anche qui il ministro-ammiraglio Giampaolo Di Paola presenta al Parlamento e al Paese una mezza verità affermando che l’Italia destina alle Forze Armate lo 0,84% del suo P.I.L. mentre la media europea è dell’1,61%. Peccato che questi dati siano smentiti dalla NATO, che attribuisce all’Italia una spesa dell’1,4% del P.I.L. rispetto a una media europea dell’1,6%. Il nostro Paese spende più della Spagna (0,9% P.I.L.) e quanto la Germania (1,4% P.I.L.) ma meno di Francia e Gran Bretagna (rispettivamente 1,9 e 2,6% del P.I.L.), che sono però nazioni che posseggono armamenti nucleari.
Questo avviene perché si conteggiano solo le spese per la Funzione Difesa, escludendo spese inserite nel bilancio della Difesa, come i Carabinieri, usati principalmente per la pubblica sicurezza ma comunque inquadrati come IV Forza Armata e le pensioni di ausiliaria; fuori dal bilancio ufficiale sono anche le missioni all’estero, a carico del ministero dell’Economia per 1,4 miliardi e i finanziamenti per alcuni sistemi d’arma a carico del ministero dello Sviluppo Economico per 1,7 miliardi; per questo nel 2012 alla fine si spendono per la Difesa oltre 23 miliardi di euro.
Per la Funzione Difesa la maggior parte delle risorse è assorbita dal personale (70%) mentre il resto viene ripartito tra l’esercizio, cioè l’operatività dello strumento militare (12%) e l’investimento, l’acquisizione dei sistemi d’arma (18%).
Il riparto ideale secondo i militari sarebbe del 50% delle risorse al personale, il 25% all’esercizio e altrettanto all’investimento: la riforma Di Paola vuole portare questo equilibrio all’interno del bilancio della Difesa, tagliando il personale e distribuendo le risorse risparmiate sui sistemi d’arma e sull’operatività. Ciò significa che, se anche le cose andassero nella direzione voluta dal Governo, alla fine non avremmo risparmi ma solo una ridistribuzione interna delle risorse, quindi nessun sacrificio economico da parte della Difesa mentre il Paese paga con lacrime e sangue la crisi.
Oltretutto non abbiamo garanzie che questa riforma mantenga i costi al loro stato attuale.
Tagli e non tagli
La legge delega, ad esempio, prevede una riduzione del personale militare da 180.000 a 150.000 unità e del personale civile da 30.000 a 20.000 entro il 2024. Secondo il Governo questo comporterà a regime un risparmio sui costi del personale di 2,2 miliardi di euro, da spostare nell’operatività e nell’investimento. Gli strumenti individuati per raggiungere l’obiettivo lasciano tuttavia molto perplessi dal momento che la mobilità del personale tagliato e ricollocato in altre amministrazioni implica che queste ultime ne paghino gli stipendi con un inevitabile aggravio per le casse dello Stato; lo strumento dell’aspettativa per riduzione quadri lascia invece il militare a casa con il 95% dello stipendio, facendo risparmiare allo Stato appena il 5% dello stipendio e forse converrebbe trovare dei lavori socialmente utili nei quali impiegare i militari.
Ci sarà poi una riduzione del 30% delle strutture e la cessione delle caserme non più utilizzate; ma sono tanti anni che si parla di cessione degli immobili dismessi dalla Difesa, e si è visto vendere ben poco. Si parla, infine, di “rimodulazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma” per avere uno strumento “più ridotto ma di elevata qualità”.
A questo proposito ricordiamo che, quando il ministro Ammiraglio ha annunciato che l’Italia avrebbe acquistato solo 90 cacciabombardieri F35, anziché i 131 previsti al momento dell’adesione al progetto, sia il Pentagono che l’azienda produttrice Lockeed Martin hanno avvisato che, a causa dei tagli fatti dall’Italia e da altri Paesi, il prezzo unitario di ogni aereo, che oggi si aggira sui 130 milioni di euro, salirà ancora e quindi il risparmio potrebbe essere molto relativo.
Ciliegina sulla torta della riforma è la richiesta di compenso per gli interventi di protezione civile da parte delle Forze Armate: a questo punto l’obiezione che solleva paradossalmente il Ministro che, se non vengono dati gli strumenti necessari alle Forze Armate forse sia meglio farne a meno, trova un senso di forte realismo. Se le Forze Armate servono solo per azioni di guerra, non contemplate dalla nostra Costituzione, e non assolvono neanche più interventi di difesa del territorio nazionale e oltre tutto ci costano più di 23 miliardi di euro l’anno, forse conviene pensare seriamente a chiuderle e con i fondi risparmiati dotarci di un’efficiente Protezione Civile, mettere in sicurezza il territorio e le scuole, e soprattutto creare tanti posti di lavoro da assorbire gli attuali lavoratori con le stellette e non.
Una recente ricerca dell’Università del Massachusetts ha calcolato che, se investissimo un miliardo di dollari nella Difesa, avremmo 11.000 nuovi posti di lavoro, 17.000 se lo impiegassimo nelle energie rinnovabili e 29.000 se venisse destinato al settore dell’educazione: un miliardo di motivi in più per svuotare gli arsenali e riempire i granai.