Svuotare gli arsenali

Crisi economica, spesa pubblica e militare.
Giulio Marcon (Campagna Sbilanciamoci!)

Durante questi primi cinque anni di crisi economica e finanziaria internazionale, la ricetta dei tagli alla spesa pubblica (per ridurre il debito) è stata al centro delle politiche e delle richieste avanzate dalle istituzioni internazionali, dai governi dei Paesi più forti e dai mercati finanziari. Sempre nell’elenco delle spese pubbliche da ridurre sono entrate le pensioni, l’istruzione, il sistema sanitario, il trattamento dei dipendenti pubblici, i servizi sociali. Quasi mai o solo di sfuggita sono state inserite nell’elenco le spese militari.
Alcuni Paesi (Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti) hanno sforbiciato qualcosa, altri (come l’Italia) non hanno ridotto praticamente niente. Nei piani di riduzione della spesa pubblica i costi della Difesa non figurano tra le priorità da aggredire. Eppure nel mondo si spendono ogni anno più di 1.600 miliardi di dollari per le armi: la riduzione del 10% a livello globale della spesa militare avrebbe liberato risorse necessarie a fermare la speculazione in Grecia e si sarebbe potuto salvare tempestivamente il Paese dal crack finanziario, senza ulteriori conseguenze per l’Europa e l’economia mondiale.
Invece la strada scelta è stata un’altra, complici la resistenza della lobby dell’industria bellica (la vicenda della produzione dei cacciabombardieri F35 si colloca anche in questo contesto), della casta dei militari, degli interessi consolidati di una parte del mondo politico nel business militare. È anche questa la ragione, non l’unica, di tante guerre degli ultimi 20 anni: tenere fiorente l’industria e il mercato delle armi, legittimare il potere della casta politico-militare, consolidare la costruzione di un sostanziale unipolarismo geopolitico incentrato sul ruolo della Nato.

Scelte inopportune
Non solo a livello europeo non c’è una politica comune – economica, finanziaria, fiscale – per affrontare la crisi, ma anche sul terreno delle politiche della difesa, la cooperazione è assai limitata e parziale. Limitiamoci al dato di fatto: oggi abbiamo – per Paesi che dovrebbero cooperare, essere alleati, intervenire insieme nelle missioni e aiutarsi reciprocamente nella difesa da attacchi esterni – 27 eserciti nazionali con decine di milioni di soldati, di cui, al massimo, il 5% è in grado di mobilitarsi rapidamente nelle operazioni internazionali. Si pensi anche al fatto che, per le commesse di armi e di approvvigionamenti, l’80% delle gare si svolge su base nazionale. Avviene così che, per rimanere all’attualità, moltiplichiamo inutilmente la produzione e l’acquisizione in sovrannumero di cacciabombardieri F35 tra Paesi alleati, quando – in un contesto di collaborazione e di alleanza – ne basterebbe un numero minore (sarebbe comunque meglio non averne nessuno) per avere lo stesso livello di operatività.
Per citare qualche numero: i Paesi europei, nel loro complesso, hanno circa 7 milioni di soldati (Stati Uniti 1 milione e mezzo), 45mila tra carri armati e mezzi di combattimento (Stati Uniti 34mila) e 3.500 aerei di combattimento (Stati Uniti 2mila). Tenuto conto delle ambiguità e anche della pericolosità di un esercito europeo slegato da un potere di controllo democratico – e oggi l’Unione Europea ha un drammatico deficit di democrazia – se si andasse verso una direzione di maggiore integrazione delle strutture di difesa europea, si potrebbe avere un risparmio complessivo di 100-150 miliardi di euro nei vari Paesi, e anche in questo caso la somiglianza della cifra (130 miliardi) con quanto si è speso per l’ultimo salvataggio della Grecia (febbraio 2012) è abbastanza significativa.

Una riforma possibile
È in questo contesto più generale che va collocato il dibattito dei primi mesi del 2012, incentrato sulla riforma delle forze armate italiane. Finalmente se ne sono resi conto in molti: forze politiche, media, sindacati e anche gli stessi militari. Si spende troppo per le forze armate in Italia: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi soldi per le armi, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della Difesa che manca da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la pentola.
È paradossale notare che, mentre le sofferenze sociali per la crisi economica stanno ancora crescendo in modo esponenziale, i generali del nostro Paese si dilettino a spendere questa montagna di soldi in “giochi di guerra”, che niente hanno a che vedere con un’idea di “difesa sufficiente” coerente con l’art. 11 (l’Italia ripudia la guerra) e l’art. 52 (ruolo nazionale e democratico delle forze armate) della nostra Costituzione. Meglio sarebbe risparmiare questi soldi, evitando sovrapposizioni e moltiplicazioni di sistemi d’arma – fortunatamente! – non utilizzati e magari in possesso anche di Paesi alleati: uno spreco inutile. Pochi (tra i non pacifisti) si rendono conto – e quasi nessuno ne parla – che, mentre vengono salvaguardati gli interessi e i privilegi della casta militare, i fondi per il servizio civile sono passati in pochi anni da 300 a 68 milioni: decine di migliaia di ragazzi – pur avendo optato per questa possibilità e avendo in molti casi passato le selezioni – non potranno svolgere un servizio non solo utile alla comunità, ma che fa risparmiare un sacco di soldi per quei servizi sociali erogati grazie al loro impegno.
Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare. Disarmare l’economia, renderla ecologicamente sostenibile e ridistribuirne in modo più equo la ricchezza, sono tre elementi di un paradigma e di un modello di sviluppo radicalmente diversi da quelli presenti. Quante volte – durante le riunioni dei forum sociali mondiali ed europei – si è affermato che neoliberismo e guerra sono due facce della stessa medaglia? Ecco perché disarmare l’economia è un modo per contribuire a rendere più equo e sostenibile il nostro modello di sviluppo.

Riconversione
Il “cosa produrre” e il “cosa consumare” per un nuovo modello di sviluppo impone di archiviare definitivamente un’idea di modello militare-industriale che è, nello stesso tempo, fonte di sofferenze umane, spreco di risorse e produttore di quelle “esternalità negative” (distruzioni, devastazioni, inquinamento) che comportano poi dei costi di soccorso e di ricostruzione immani. Serve a tal fine un grande disegno di riconversione industriale (fatto di risorse, ma soprattutto di volontà politica e di programmazione degli interventi) dalle produzioni militari a quelle civili: creando più posti di lavoro, soddisfacendo bisogni essenziali per le popolazioni, non determinando costi diretti o indiretti per la comunità.
Si tratta di varare misure di buon senso che siano in equilibrio dal punto di vista finanziario (anzi, con un accantonamento per la riduzione del debito), ma che prevedano un cambio di paradigma con un’opera di ripensamento radicale dell’economia, delle nostre produzioni e consumi, una riconversione ecologica e sociale che, per forza di cose, cambi anche i nostri stili di vita, i modelli di consumo, il dominio del denaro e l’immaginario individuale e collettivo così pesantemente colonizzato dal mercato e dall’economia liberista. In questo contesto disarmare l’economia e riconvertirla a fini ecologici e sociali non è semplicemente lavoro di pacifisti e antimilitaristi, ma obiettivo più generale di chi lavora per il cambiamento, per un modello di sviluppo diverso, per stili di vita nuovi, per la cooperazione e la solidarietà. Cambiare produzioni e consumi dentro la cornice di un nuovo modello di sviluppo e di riconversione industriale significa ad esempio chiedere alle industrie di cacciabombardieri di produrre – invece – aerei per spegnere gli incendi; o a quelle che fanno radar e sistemi di puntamento di produrre i macchinari per fare le Tac; o a quelle che producono camion militari di fare pullman per il trasporto pubblico; o a quelle che costruiscono sistemi di precisione o apparecchiature elettroniche per i sistemi d’arma di fare i pannelli fotovoltaici; o a quelle che fanno gli elicotteri da combattimento di farne invece di quelli – senza mitragliatrici – che servono per l’elisoccorso. Gli esempi si sprecano. Certo, per fare tutto questo servono risorse, direttrici di politica industriale, investimenti e incentivi, ma non mancherebbero se le scelte di politica economica e di destinazione della spesa pubblica fossero diverse. In sostanza bisogna spostare risorse, interventi e sostegno dal militare al civile. Ecco perché, mai come in questa crisi, è valido l’adagio “Svuotare gli arsenali, riempire i granai”.

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