Quale difesa?

Lo strumento militare tra costi, ridefinizioni e prospettive. Un dossier al crocevia tra interessi delle industrie armiere, scelte politiche in materia di difesa e possibilità di riconversione. Di un modello di sviluppo innanzitutto.
Francesco Martone

Questo dossier è stato ideato e prodotto in una congiuntura temporale particolare: mentre il Parlamento discuteva di Spending Review e di ridefinizione dello strumento militare; il SIPRI rendeva noto il suo ultimo rapporto sulle spese militari; trapelavano notizie sull’escalation del coinvolgimento italiano in operazioni offensive e di bombardamento a terra in Afghanistan; la campagna “Taglia le ali alle armi” presentava i risultati della sua mobilitazione in Parlamento; infine a New York i rappresentanti dei governi si riunivano per negoziare il trattato ONU sul commercio di armi (ATT). Proprio dall’analisi della spesa militare nel tempo della crisi (oggetto dell’articolo di Giulio Marcon) si può partire per ricostruire un percorso collettivo di proposta sulla riconfigurazione dei modelli di difesa e sicurezza; sulla conversione dell’industria bellica; sulla regolamentazione del commercio di armi. Tre punti sui quali la partita è tutta da giocare. Sulla riconfigurazione dei modelli di difesa, la discussione in corso in Parlamento sulla ridefinizione dello strumento militare denota un approccio più vicino agli interessi delle imprese del settore che al contributo che questo strumento potrebbe fornire in una visione di politica estera fondata sulla prevenzione dei conflitti, e la gestione degli stessi attraverso gli strumenti propri della diplomazia e della mediazione. Insomma, quella che viene proposta come decisione puramente contabile, nei fatti, nasconde la decisione, tutta politica, sganciata però da una dottrina o “vision” sulla sicurezza, di dare prevalenza all’acquisizione di armamenti altamente sofisticati, che presuppongono un ruolo puramente offensivo e di proiezione globale della potenza delle forze armate. Ci troviamo di fronte a una definizione “per default” delle priorità delle politiche di difesa. Questo sembra essere il primo vero vulnus del dibattito sulle spese militari, relativo a democrazia e trasparenza. Di democrazia giacché il Parlamento viene chiamato solo a decidere su capitoli di spesa e non sul suo ruolo di indirizzo politico (visto che delegherebbe la definizione del modello di difesa al governo). Di trasparenza, perché se non fosse stato per l’opera meritoria dei movimenti e di alcuni operatori dell’informazione, questo dibattito sarebbe passato in sordina. Carlo Tombola nella sua analisi del rapporto OPAL (cfr. articolo pagg.15-16 di questo stesso numero di Mosaico di pace) sottolinea come “guardare all’interno del mercato delle armi è un esercizio essenziale della libertà democratica e del diritto di espressione dei cittadini”. A ciò si aggiunge l’incongruenza rispetto alle vere emergenze sociali e lavorative che oggi affliggono il Paese. Sulle inaccettabili sperequazioni tra i costi – crescenti e al di fuori di ogni controllo – del programma F35 e la riduzione delle spese sociali si è detto molto. Un dato su tutti dà la cifra del passaggio da un sistema di “welfare” a uno di “warfare”: con un solo cacciabombardiere F35 si potrebbero costruire 387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi posti di lavoro o aiutare con servizi di assistenza 14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti. Va sottolineata con forza l’infondatezza dell’argomentazione secondo la quale un sostegno all’industria bellica è necessario per proteggere o costruire nuove opportunità lavorative. Nel suo articolo sulla discussione parlamentare sullo strumento militare, Massimo Paolicelli cita uno studio dell’Università del Massachussetts, secondo il quale un miliardo investito nella difesa produce 11mila posti di lavoro, che passano a 17mila se la stessa somma fosse stanziata per energie rinnovabili e a 29mila se fosse investita nell’educazione. La discussione su occupazione e industria bellica può quindi essere affrontata secondo alcuni criteri. Il primo è quello dei posti di lavoro “negati” dalla spesa militare; il secondo quello della riduzione dei posti di lavoro di competenza del ministero della Difesa. Nella sua proposta di revisione dello strumento militare, che prevede tagli al personale militare, il ministro Di Paola propone una redistribuzione delle risorse così risparmiate su sistemi d’arma sofisticati e capacità operative e di proiezione globale. Il terzo, oggetto del contributo di Gianni Alioti, riguarda quei posti di lavoro che vengono persi in seguito agli sviluppi strutturali del comparto difesa. Si calcola che, solo per il comparto aerospaziale europeo, dal 1980 al 2008, i posti di lavoro nel settore militare si sono dimezzati a fronte di un aumento del 40% dell’impiego nel settore civile, Questo a causa dell’innovazione tecnologica, dell’aumento del fatturato per addetto e delle strategie di fusione di imprese in grandi conglomerati. A questa situazione va contrapposto il rilancio di un percorso di conversione dell’industria bellica, sulla scorta di esperienze già fatte a livello europeo e italiano. Tema – quello della riconversione – già riconosciuto dalla legge 185/90 oggetto di continui stravolgimenti da parte dei governi di turno – governo Monti incluso – volti a ridurre i vincoli di trasparenza e rendicontazione delle esportazioni di armi italiane nel mondo. Così il governo italiano, mentre da una parte partecipa al negoziato ONU sull’ATT sostenendone l’adozione, dall’altra si adopera a vantaggio delle imprese di un settore sempre in gran salute. Nel 2011 l’esportazione di armi italiane è aumentata di oltre il 5 per cento per un valore di 3 miliardi e 59 milioni di euro. Armi vendute a Paesi che violano i diritti umani, o in aree di conflitto (Egitto, Oman, Qatar, Israele, Marocco, Turchia, Arabia Saudita). La buona notizia che viene da Pisa è la coraggiosa decisione dell’impresa Morellato Termotecnica di non accettare una proposta di produzione di tecnologia da utilizzare per testare siluri ad alta tecnologia e tener fede agli impegni presi firmando il patto per il distretto dell’economia solidale. Un passo importante al quale dovranno affiancarsi altre imprese, e che dimostra la possibilità di rielaborare il conflitto tra warfare e occupazione in un quadro più ampio di transizione ecologica e conversione del sistema produttivo. La rotta è stata solo tracciata. Ci sarà ancora molto da fare per porre fine a doppi standard, discrasia tra politica, interessi imprenditoriali e strategie militari, e costruire, assieme a una moltitudine di soggetti politici, sociali, sindacali, imprenditoriali le premesse per un “disarmo” dell’economia e della politica. Un compito urgente e ancora attuale per tutto il movimento pacifista italiano e internazionale.

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