GIUSTIZIA

Da Palermo in poi

Esistono trattative tra Stato e mafia? Rapporti oscuri, quando non torbidi, tra politici e criminali, che feriscono profondamente la nostra democrazia.
Gian Carlo Caselli (Procuratore Capo della Repubblica di Torino)

Quello delle “trattative” fra Stato e mafia (che si sarebbero variamente intrecciate, persino dandovi causa, con le stragi del 1992/93) è un labirinto vischioso nel quale si intravedono o si intuiscono – oltre a interessi propriamente criminali – altri interessi, non meno oscuri e torbidi. I magistrati della procura di Palermo (culturalmente e professionalmente affidabilissimi, perciò senza dubbio in grado di avvicinarsi alla verità più di chiunque altro) dovranno fra poco esprimersi, sciogliendo alcuni primi nodi. Concluse le indagini, dovranno, infatti, motivare la richiesta di rinvio a giudizio di vari soggetti accusati di minaccia a corpi politici dello Stato italiano per turbarne l’attività (art. 338 cod. pen.), minaccia consistita nel prospettare gravi delitti (stragi e omicidi) alcuni dei quali commessi. L’elenco degli accusati è di per sé sconvolgente: dà la misura della difficoltà e delicatezza degli accertamenti e nello stesso tempo del devastante impatto che potranno avere gli esiti del processo. L’accusa, infatti, accomuna fra loro, come pezzi che insieme formano un unico strabiliante cerchio, mafiosi di primaria caratura criminale (Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà), carabinieri al vertice del ROS (Subranni, Mori, De Donno) e uomini politici come Mannino e Dell’Utri. Per di più il delitto di minaccia a corpi politici è contestato in concorso con il defunto capo della polizia Parisi e con il defunto vice direttore del DAP Di Maggio, oltre che in concorso con altri “congiurati” allo Stato ancora ignoti, ma che – stando ad alcune indiscrezioni – potrebbero anche essere stati “eccellentissimi” (un’accusa diversa, rispettivamente falsa testimonianza e calunnia, riguarda poi Mancino e Ciancimino figlio; infine, in un altro procedimento connesso è accusato di falsa testimonianza anche il prof. Conso).

Passo per passo
In attesa di questa prima pronunzia della procura di Palermo, per non perdersi nel labirinto delle “trattative” inseguendo ricostruzioni spesso contraddittorie (quando non interessate), conviene allineare prima di tutto alcune certezze. Il 1992 si apre con la storica sentenza della Cassazione che conclude il “maxiprocesso”, infliggendo – ed è la prima volta in assoluto – definitive e pesanti condanne a numerosi mafiosi anche di vertice. Il gotha mafioso legge questa condanna come “tradimento” delle promesse di impunità ricevute. Frattanto Giovanni Falcone (cacciato dalla Sicilia e approdato al ministero della giustizia di Roma) sta approntando un vero e proprio arsenale antimafia, di grande incisività ed efficacia, proiettando sul piano nazionale i parametri – che il pool di Palermo aveva sperimentato come vincenti – della specializzazione e centralizzazione: nascono così la DNA con la sua banca dati, le DDA e la DIA, mentre sono in cantiere la legge sui “pentiti” e quella sul trattamento carcerario di giusto rigore dei mafiosi detenuti. I criminali che formano Cosa nostra non possono assistere passivamente a queste formidabili novità, micidiali per la loro sicurezza. Sanno di dover scontare lunghe pene in un carcere che non sarà più un confortevole grand hotel. Avvertono che Falcone ha innescato un potente siluro sotto la linea di galleggiamento della loro criminale corazzata. Fanno i loro conti e reagiscono. Brutalmente. Prima uccidendo Lima (l’andreottiano considerato responsabile del “tradimento”), poi organizzando le stragi di Capaci e via d’Amelio. Che, perciò, sono una vendetta della mafia contro Falcone e Borsellino per il lavoro svolto nel maxi e nel contempo il tentativo di seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente. Ovviamente, se in questa lettura è rilevabile una causa delle stragi, può ben trattarsi di una con-causa, non incompatibile con l’esistenza di cause concorrenti, come quelle che potrebbero emergere dall’inchiesta sulle “trattative”.

Verità celate
Vi sono altre certezze che possono arricchire il panorama complessivo. La prima riguarda il senatore a vita Andreotti (capo della corrente in cui militava Salvo Lima), del quale sono provati – Cassazione 9 aprile 2005 – rapporti con Cosa nostra costituenti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo” quanto meno fino al 1980. Analoga è la posizione del senatore dell’Utri, per il quale pure la Cassazione, con sentenza del 9 marzo 2012, ha stabilito, in base a prove sicure (pag. 129), la responsabilità per il reato di concorso esterno con Cosa nostra, per averlo commesso almeno fino al 1978 operando di fatto come tramite di Silvio Berlusconi (per i periodi successivi, fino al 1992, si è aperto a Palermo un nuovo processo d’appello). Come si vede, personaggi di primaria grandezza della storia italiana, sia sul versante politico (Andreotti) che su quello dell’imprenditoria fattasi poi politica (Dell’Utri e dintorni), hanno intrattenuto cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa. Una realtà inquietante che investe direttamente la qualità della nostra democrazia, sulla quale (invece di far finta di niente) si dovrebbe riflettere: preliminarmente ad ogni discorso ulteriore, compreso quello sulle “trattative”. Ma neanche a fronte di queste due sentenze (sentenze definitive, si ribadisce, della suprema corte) vi sono stati dibattiti, analisi, confronti. Tutto è stato cancellato e nascosto. Se ne parla soltanto per stravolgere i fatti, scegliendo strade che allontanano all’infinito la scoperta della verità.

Il senso dello Stato
E così tutto viene delegato – come sempre – alla magistratura. Con l’improntitudine, da parte di molti, di scatenare velenose polemiche non appena la verità sembri avvicinarsi, accusando i magistrati di deragliare rispetto ai loro compiti col maneggiare una materia viscida e sfuggente, indefinibile e opinabile che rischia continuamente di volatilizzarsi. Ed ecco che, invece di ragionare entro un quadro di rispetto per la difficile azione dei magistrati, si preferisce un clima da scontro fra tifoserie, nel quale si intorbidano anche le dispute – ostiche e complesse, ma di per sé ammissibili – sulla discrezionalità squisitamente politica di certi atti che perciò non avrebbero rilevanza penale, oppure sulla distinzione fra un “senso dello Stato” malinteso e peggio applicato e un uso illegale dello Stato stesso, vuoi per una strategia del tutto sbagliata, vuoi invece per calcoli di potere. Vi è, infine, la radicata tendenza a fare blocco intorno a qualcuno (da ultimo il Capo dello Stato, a causa della gestione di certe intercettazioni) così isolando i magistrati inquirenti e rendendo ancor più difficile la loro attività. Che se poi Antonio Ingroia decide di andarsene in Guatemala, invece di constatare che si tratta di un risultato esecrabile per il nostro Paese, c’è magari qualcuno che brinda a champagne.

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