Narrazioni in corso
H come horâo, che in greco, la lingua del Nuovo Testamento, vuol dire vedere, e come hapto, che significa toccare. In una concezione relazionale della vita, vedere e toccare sono due forme insostituibili dell’essere umano. Sono mezzi primordiali attraverso i quali la vita non solo si esprime, ma si costrui-sce e la relazione si realizza. Si ricostruisce. Sono vie che esprimono pace e portano (o riportano) alla pace.
La gioia iscritta nel nome stesso di Gesù, per essere trasmessa, sì da diventare “contagiosa”, ha appunto bisogno di un con-tatto. Il “discepolo amato”, che dai più viene identificato con Giovanni l’evangelista, è anche il discepolo che, oltre ad aver visto e creduto (Gv 19,35), è quello che si è fisicamente piegato sul petto del Maestro, come a cercare con lui un contatto il più vicino possibile. Potremmo dire che ha cercato di sentire i battiti del cuore di colui che lo amava e che egli amavaanche al di là della morte e della paura della morte. Infatti è stato l’unico discepolo a restare sotto la croce di Gesù insieme con Maria, la madre di Gesù; Maria di Magdala, l’ex peccatrice; e un’altra Maria, “madre di Cleopa” (Gv 19,25).
A quel discepolo che era rimasto a vedere l’invisibile (l’ahoratós) di un amore che sopravviveva alla morte, Gesù aveva affidato sua Madre, la quale dell’amore che ha il sopravvento sull’odio e sulla morte era e rimane come l’emblema vivente: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).
Non lo stesso era accaduto con Cleopa, che stanco e deluso, il giorno di Pasqua, insieme con il suo compagno, scendendo verso Emmaus, guardava ma non scorgeva ancora Gesù nel viandante che si era accompagnato a loro. Lo intravedeva, ma non lo riconosceva e così per tutto il percorso, fino al momento in cui il contatto reale, stabilito attraverso la disinteressata offerta dell’ospitalità e di un pezzo di pane, ha consentito il miracolo per lui e per il suo compagno: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”» (Lc 24,31-32).
Vedere realmente, riconoscendo l’identità dell’altro, libera energie nascoste, fa intraprendere nuove strade, rimette alla ricerca degli amici lasciati e delle idealità smarrite. I due, nonostante la notte, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro» prosegue lo stesso Vangelo. Dagli altri ascoltarono che il Signore era risorto ed era stato visto, mentre a loro volta narravano come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane, dopo aver intuito qualcosa nell’ascolto delle sue parole.
Shalom!
Si tratta di un reciproco annuncio di gioia. Rifiorisce la speranza, il coraggio è di nuovo tra loro. Tutto ciò ristabilisce quel circuito di pace, che si era interrotto con i rinnegamenti, i tradimenti, il fuggi-fuggi generale, la tristezza e la paura. Avevano smarrito Gesù nello smarrire se stessi e viceversa. Ma ora che hanno visto e riconosciuto il Maestro, ritrovano se stessi e ritrovano la pace.
Infatti, è proprio quella parola, “Shalom!”, che odono in quel preciso istante ed è Gesù ad averla pronunciata, mentre di nuovo lo vedono, nel loro reciproco racconto e nel loro rinfrancarsi a vicenda, perché «mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”» (Lc 24,36). Tutti adesso lo vedono, ma non riescono ancora a toccarlo, credendo sia un fantasma, fino a quando lo stesso Gesù non mette insieme il guardare e il toccare (con verbi sinonimi di quelli indicati in apertura). Dice infatti: «“Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24,38-40).
È anche per questo che ogni annuncio di pace come vita riconciliata, cioè come vita riuscita, passa attraverso la visione e il contatto: l’esperienza diretta e il contatto che coinvolge. Molti nostri fallimenti in questo campo risentono non di generici difetti di comunicazione, ma di una carenza strutturale della comunicazione stessa. Sono riconducibili a un deficit di esperienza personale e di mancanza di sperimentazione in “carne viva” di ciò che si annuncia.
Se il Vangelo è una delle forme più alte della comunicazione delle più profonde speranze umane corrisposte da Dio, ogni comunicazione passa necessariamente attraverso la narrazione. Ma si tratta di una narrazione di ciò che si è visto e si è toccato. Ne era ben convinto l’autore della prima lettera di Giovanni, un tempo identificato con lo stesso evangelista, ma la cui teologia è di certo riconducibile a quel metodo del vedere, toccare e credere: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,1.3).
Concludendo, si può narrare un Vangelo credibile, solo se si sa scorgere l’invisibile e l’inedito nelle pieghe e nelle piaghe della storia. Si possono curare le ferite, solo quando si sono toccate e si toccano continuamente in se stessi e negli altri. Ferite della nostra condizione umana, ferite inferte dalla storia ai più deboli, ferite che tuttavia fanno tralucere, come in trasparenza, la speranza e l’anelito della pace, anche negli effetti della violenza e nelle situazioni umanamente bloccate.
Vedere e toccare rompe ogni lucchetto e instaura nuovi rapporti, facendo guardare più in alto e più lontano.