Vittime per la guerra
“Beato il Paese che non ha bisogno di eroi” (B. Brecht). E il quotidiano Avvenire – proprio nei giorni della memoria di Franz Jagerstatter, obiettore di coscienza al servizio militare nel III Reich di Hitler (ghigliottinato il 9 agosto 1943 e proclamato beato e martire nel 2007) – usciva (8 agosto 2012) con un paginone dedicato agli “Eroi per la pace”, alle vittime delle missioni militari. Ampio spazio a mons. Pelvi, ordinario militare: “I militari italiani non considerano le missioni internazionali di sicurezza come esperienza di guerra, perché sono desiderosi di sostenere la democrazia a costruire la pace in luoghi martoriati”.
Prontamente, il giorno dopo, alcuni sacerdoti (una ventina all’inizio, ora più di cento) – questa volta sì cappellani di pace “disarmati” – replicavano: “è davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante. Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della «missione» e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre – chiamate appunto «missioni di pace» –, ma in realtà avventura senza ritorno”.
“Soldati e cristiani, realtà convergenti. È sempre la carità la radice morale”, aveva affermato mons. Pelvi.
“Da sempre abbiamo presentato ai cristiani gli eroi della fede – scrivono i sacerdoti al direttore di Avvenire – e quindi ci scandalizziamo se ora volete rappresentarli con le armi in mano e, per nascondere le responsabilità di tanto sangue versato in questa ‘inutile strage’, fate diventare ‘eroi per la pace’ questi giovani strappati alla loro vita, vittime della guerra”.
Come può mons. Pelvi, si chiedono i firmatari della lettera, e noi con loro, dichiarare che fare il militare è “una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana” o sostenere che “i cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace”?
Ci sembra che la luce che viene dal Vangelo illumini strade che portano in altre direzioni. E anche il Concilio Vaticano II, seppur “vecchio” di 50 anni, contiene indicazioni ancora di grande attualità sulla guerra e sulle armi. E oggi le guerre si combattono con armi intelligenti, missili di precisione, all’uranio e al fosforo bianco!
Il direttore di Avvenire Tarquinio, il 12 agosto, scrive una lunga risposta ai preti ma – noi ci permettiamo di insistere! – “essere cristiani ed essere militari” SONO dimensioni divergenti. Secondo noi, naturalmente. E anche secondo la tradizione dei primi martiri cristiani.
Perché cancellare un lungo e fecondo cammino del Magistero della Chiesa che condanna la guerra come “inutile strage”, “alienum est a ratione”, “avventura senza ritorno”? Quanta importanza ha, per i nostri interlocutori e per la nazione intera, la scelta di ripudiare la guerra (art. 11 della Costituzione) che ha impregnato il percorso dei nostri padri costituzionali?
Come si può sposare l’opzione evangelica del perdono e dell’amore dei nemici e poi giustificare la scelta di sconfiggere l’avversario con armi e fuoco, con una guerra altrettanto crudele di quella contro cui si combatte? L’Iraq e l’Afghanistan sono una tragica dimostrazione della follia della guerra. Come può il fuoco amico essere più clemente di quello nemico? Come si può credere possibile coniugare l’essere cattolici con la scelta militare? Nel lontano 1997, in un convegno promosso da Pax Christi a Firenze, con un rappresentante dell’Ordinario Militare, si ribadiva l’esigenza di tornare “a discutere sul ruolo dei Cappellani Militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
Parliamone. Chi ci sta?