Dalla diossina alle bustarelle
A Taranto vi sono trenta morti ogni anno per inquinamento industriale. Questo è documentato dalla perizia commissionata dalla Procura della Repubblica. A Taranto – unica città in Italia – vi sono 210 chili a testa di inquinanti ogni anno per ogni abitante. Questo è il peso dell’Ilva. Aumenta ancor di più se si considera anche l’Eni, la Cementir, le centrali elettriche e gli inceneritori.
Pecorino alla diossina
L’Ilva è entrata nel mirino di questa inchiesta della magistratura dopo una lunga serie di indagini, cominciate allorché emerse lo scandalo della diossina nel formaggio. Il 27 febbraio 2008 presso la Procura della Repubblica fu, infatti, depositato un esposto dall’associazione PeaceLink a cui erano allegati i certificati di prova (ossia le analisi) che comprovavano lo sforamento in un campione di pecorino locale del limite fissato dalla legge per la diossina e i PCB (policlorobifenili). Entrambi sono cancerogeni. Le analisi attestavano concentrazioni tre volte sopra il limite di legge (i dati da cui partì l’indagine della Procura sono descritti qui in modo molto dettagliato
www.tarantosociale.org/tarantosociale/a/25341.html).
Divieto di pascolo
A partire da quell’esposto è cominciata un’intensa attività di verifica che ha portato a certificare la contaminazione della catena alimentare. Sono state abbattute oltre duemila pecore in più ondate perché, nelle loro carni, c’erano diossina e PCB. Venne imposto il divieto di pascolo su terre incolte per un raggio di 20 chilometri a partire dall’area industriale. Ma, prima delle analisi commissionate da PeaceLink, cosa avevano fatto gli enti pubblici preposti al controllo? Avevano verificato se negli alimenti diossina e PCB fossero oltre i limiti di legge?
Questa domanda è importante, in quanto la diossina entra nel corpo umano al 98% tramite l’alimentazione e solo al 2% tramite la respirazione.
La risposta è che dal 2002 al 2007 risultavano effettuate 72 analisi di alimenti a Taranto. Ma risultava tutto “a norma”! I campioni analizzati non eccedevano i limiti di legge. Ma è bastata l’analisi commissionata da PeaceLink per scoprire che la realtà era ben diversa.
La bustarella
La Procura, allora, dette incarico a tre consulenti per individuare la fonte inquinante: il prof. Lorenzo Liberti, il prof. Filippo Cassano e l’ing. Roberto Primerano. Le loro indagini si protrassero per molto tempo senza, però, individuare con certezza la principale fonte inquinante che aveva causato il disastro ambientale. Ma come mai tanta lentezza? PeaceLink a questo punto decise di sostenere direttamente gli allevatori danneggiati dalla diossina. Contattò il dott. Stefano Raccanelli, esperto di diossina, e gli chiese di diventare il perito di parte che facesse luce su questa vicenda ingarbugliata e su cui ricadeva il sospetto di manovre dilatorie. Il dott. Raccanelli scrisse una perizia dettagliatissima che individuava, nell’Ilva, la fonte principale di diossina.
E intanto, che facevano i consulenti nominati dalla Procura della Repubblica? Uno di loro, Lorenzo Liberti, era stato contattato da Girolamo Archinà, responsabile della pubbliche relazioni dell’ILVA. Si sarebbero visti, in modo alquanto sospetto, in un’area di servizio dell’autostrada A14, nei pressi di Taranto. Ma, a riprendere il loro incontro, con telecamera nascosta, c’era la Guardia di Finanza, appostatasi per ordine della Procura che, evidentemente, si era insospettita. Secondo la Guardia di Finanza, i due si sarebbero scambiati una busta contenente diecimila euro. E l’importo sarebbe stato confermato da alcune intercettazioni risalenti a pochi giorni prima: “Non potevo parlare prima… per domani mi prepari dieci?”, dice Archinà a un funzionario dell’Ilva. Che chiede: “Da cento? Da cinquecento?”. E Archinà risponde: “Da cinque, sì da cinque”. Il cassiere dell’azienda, però, sembra avere qualche problema di taglio delle banconote e, il giorno successivo, avvisa Archinà: “Senti, i soldi li ho qua, ma sono tutti da cento e da cinquanta… non ce ne avevano da cinquecento”. Ma lo stesso Archinà sembra non preoccuparsi più di tanto: “Eh va bene... Devo portare la valigetta vuol dire”. Ma il cassiere lo tranquillizza: “Va bè, è una busta, in tasca entra”.
La Procura della Repubblica decise allora di nominare altri tre consulenti, che non fossero “locali”. Taranto appare “inquinata” anche nella sua classe dirigente, e fra non molto emergeranno molti nomi eccellenti.
Arresti eccellenti
Dalle intercettazioni telefoniche della Procura si tocca con mano, infatti, un fitto intreccio di relazioni fra Ilva e la Taranto che conta, dalla politica alla Chiesa locale, il che spiegherebbe il silenzio di tutti questi anni. Emergono regalie anche alle parrocchie per le feste dei santi. La Procura, pertanto, non si fida più del livello locale e – tramite un pool di esperti nazionali – ottiene finalmente una perizia chimica chiara: Ilva appare la fonte dell’inquinamento riscontrato. I consulenti della Procura sono arrivati alle stesse conclusioni, a cui era giunto il dott. Stefano Raccanelli: la pista porta all’Ilva e alla sua diossina.
E così la Procura mette nero su bianco che l’indagine non è verso ignoti, ma nei confronti dei vertici di Ilva. Le persone coinvolte nell’inchiesta della Procura di Taranto diventano cinque: gli ex presidenti dell’Ilva Emilio e Nicola Riva, l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, e i dirigenti di due reparti, Ivan Di Maggio e Angelo Cavallo. Sono indagati per i reati di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. Scattano anche degli arresti domiciliari.
Quattromila tonnellate di polveri
Nella perizia chimica si legge che nel 2010 Ilva ha emesso dai propri camini oltre 4 mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto e 11 mila e 300 tonnellate di anidride solforosa, oltre a: 7 tonnellate di acido cloridrico; 1 tonnellata e 300 chili di benzene; 338,5 chili di IPA, i pericolosi idrocarburi policiclici aromatici, cancerogeni sia per inalazione sia per ingestione. E per la diossina si individua la cosiddetta “impronta” che consente di riscontrare una notevole somiglianza fra la diossina dei pascoli, dove si sono contaminate le pecore, e la diossina delle polveri degli elettrofiltri dell’impianto di sinterizzazione di Ilva. A essere posti sotto accusa sono poi i fumi “non convogliati” dai camini. La stessa Ilva stima che le sostanze non convogliate emesse dai suoi stabilimenti sono quantificate in 2148 tonnellate di polveri; 8800 chili di IPA; 15 tonnellate e 400 chili di benzene; 130 tonnellate di acido solfidrico; 64 tonnellate di anidride solforosa e 467 tonnellate e 700 chili di Composti Organici Volatili.
Trenta morti all’anno
Alla perizia chimica si affianca una epidemiologica che fornisce dati inequivocabili. Sarebbero 386 i decessi (30 morti per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Sono 237 i casi di tumore maligno con diagnosi da ricovero ospedaliero (18 casi per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Sono 247 gli eventi coronarici con ricorso al ricovero (19 per anno). Sono 937 i casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie (74 per anno, in gran parte tra i bambini) correlate alle emissioni industriali. Sono 17 i casi di tumore maligno tra i bambini con diagnosi da ricovero ospedaliero. I periti hanno concluso che l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dallo stabilimento siderurgico ha causato e causa nella popolazione “fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. Ma perché è dovuta intervenire la magistratura se chi governava aveva il dovere di prevenire?