Tre Donne una Sfida
La pace può esistere solo se poggia su due solidi pilastri: la democrazia e la giustizia sociale. Sono questi i valori che uniscono con un filo di consapevolezza e dignità il Sudan di Fatima Ahmed Ibrahim, l’Iran di Shirin Ebadi e l’Afghanistan di Malai Joya. “Tre donne e una sfida”, di Marisa Paolucci (Tre donne e una sfida. Teheran, Kabul, kartoum: la rivoluzione rosa di Shirin, Malalai e Fatima, Emi, 2011), presenta la vita di tre grandi musulmane profondamente credenti, ma che rivendicano un’interpretazione dell’Islam libera dall’oppressione e dal maschilismo.
Tre protagoniste che pongono il loro impegno a favore della separazione tra religione e Stato nella convinzione che la laicità è un modo per difendere la fede dalla strumentalizzazione del potere.
Fatima Ahmed Ibrahim, nata nel 1933 in Sudan è la prima donna eletta in Parlamento nella storia del suo Paese e dell’intero continente africano. Fondatrice, a soli 19 anni, del movimento “Unione delle donne”, opera in un contesto politico in cui i regimi dittatoriali che si sono succeduti alla divisione del Paese hanno sovvertito ogni ordine democratico. La chiave del successo di Fatima sta in una parola: rispetto. Le donne del movimento decidono di coprire la testa, di vestire in modo conforme, di mantenere l’abito tradizionale, convinte che non è il cambio di abito l’obiettivo, ma un’innovazione sostanziale e non solo formale. Molte sono le vittorie parlamentari di Fatima e delle attiviste del movimento, capaci di tener testa all’ostruzionismo dei Fratelli musulmani, i quali utilizzano la religione come alibi per giustificare i soprusi che i sudanesi, e in particolare le donne, sono costretti a subire.
Shirin Ebadi, nata in Iran nel 1947, è stata nominata premio Nobel per la pace nel 2003. È giudice quando alla fine del 1979, anno della Rivoluzione islamica, il regime fanatico e fondamentalista prende il potere imponendo un nuovo Codice penale islamico che fa retrocedere il sistema giuridico iraniano di millequattrocento anni. La discriminazione sessuale viene istituita per legge: la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo. In quello stesso anno Shirin viene destituita dal suo incarico per la sola ragione di essere una donna esiliata ma, anche lontana dall’Iran, non smette mai di essere un avvocato in prima linea che lotta per la visione di un islam in armonia con la democrazia.
Malalai Joya, nata nel 1978 in un Afghanistan divorato da oltre trent’anni di guerra, dove si usa l’islam come baluardo per difendere principi estranei alla religione, è una parlamentare afghana che denuncia gli assassini al potere che utilizzano la fede per giustificare i loro crimini. In pieno regime talebano, Malalai apre scuole clandestine per le ragazze, nascondendo sotto il burqa libri e quaderni per le allieve.
Ovunque le donne sono oggetto di violenza, anche dove esistono leggi che tutelano l’eguaglianza. La storia dimostra che la donna è l’ultimo gruppo sociale a usufruire della democrazia e la radice profonda di questa ingiustizia è la cultura patriarcale. Purtroppo molte donne, pur vittime, sono “portatrici sane” di questa cultura sbagliata. Finché non ci sarà un mentalità nuova a partire dalle donne, la cultura patriarcale continuerà a danneggiare loro e la democrazia intera.
Questo libro è un incontro con donne fuori dal coro, musulmane del nuovo millennio.