Il carcere minimo

Cosa significa “rieducazione”? Come adeguare la struttura penitenziaria e il trattamento dei detenuti alle finalità rieducative per cui il carcere stesso è pensato?
Elisabetta Laganà (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia)

Quando parliamo di carcere, non possiamo prescindere dall’art. 27 comma 3 della Costituzione, che sancisce come il fine ultimo e risolutivo della pena stessa rappresenti un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle.
La questione che si pone, quindi, è: che cosa significa “rieducazione”, secondo la logica dell’istituzione penitenziaria? In altri termini: il principio di rieducazione perseguito dall’istituzione penitenziaria coincide con quello espresso dalla Costituzione?
Sono domande alle quali anche la società civile in generale, e i soggetti non istituzionali che col carcere si misurano quotidianamente in particolare, si pongono da anni e non solo quando la realtà carceraria balza alla cronaca per l’ennesimo suicidio oltre le sbarre.

Tra soprusi e indignazione
Con l’attuale situazione carceraria il precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena in funzione del reinserimento rischia di rimanere una pura disposizione sulla carta, senza effetti pratici e senza concretezza. È necessario richiamare le parole del presidente Napolitano del maggio scorso: “L’attenzione che parlamento e governo pongono ai problemi del carcere induce a confidare che il punto critico insostenibile cui essi sono giunti possa essere superato anche attraverso l’adozione di nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali che coinvolgano tutti gli operatori del settore”.
È urgente, quindi, riportare il carcere a livelli di legalità, non solo dal punto di vista numerico, ma anche sulla qualità dell’esecuzione penale. I provvedimenti posti in essere alcuni mesi fa, per ottenere la deflazione numerica degli istituti, vanno sicuramente nella giusta direzione, ma non sono sufficienti.
Di fronte ai problemi della penalità, dobbiamo chiedere non solo a noi stessi ma anche alla cittadinanza, ai non addetti ai lavori, quale sia l’idea del carcere e dell’esecuzione penale, e se pensiamo che il carcere così com’è costituisca un valore in termini di tutela della sicurezza, come sembra sostenere il senso comune dominante. Noi pensiamo che sia nell’interesse di tutti dare istituzioni migliori alla polis, compreso il carcere, perché la salvaguardia dei diritti dei soggetti deboli è il metro di giudizio dell’effettiva salvaguardia dei diritti di ciascuno.
Il carcere esiste sempre, tutti i giorni dell’anno, e nella sua attuale drammaticità espressa nelle incontenibili cifre del sovraffollamento e dei gravi episodi dovrebbe essere considerato una emergenza nazionale: purtroppo silenziosa, finché fatti gravissimi non bucano lo schermo per un tempo troppo breve per penetrare anche le coscienze collettive.
Il tema delle condizioni del carcere evoca il sentimento di indignazione. Per chiunque entri in un carcere non è difficile provare questo sentimento; è sufficiente constatare la distanza abissale tra la teoria e una realtà fatta di violenza e di soprusi, di negazione dei più elementari diritti della persona. La difficoltà nasce dal perpetuare questo sentimento di indignazione, mantenerlo nel tempo e farne un progetto. Un progetto basato sul fatto che dobbiamo percepire la sofferenza altrui come la nostra, vivere come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi, di coloro a cui è tolta la dignità. E farne una dimensione politica. Intesa come pensarsi “io e gli altri”, insieme, per incidere, fosse solo per un frammento, sulle vicende umane. Un pensare che diventa, quindi, un agire collettivo.
Accanto a questa battaglia, che è una battaglia politica e culturale di lungo periodo, bisogna avere la forza di riprendere quella dei diritti, dei diritti fondamentali della persona, dei diritti che valgono anche in regime di esecuzione penale.

Un lavoro comune
Una strada percorribile per produrre dei risultati è quella di un lavoro che coinvolga istituzioni e organizzazioni impegnate sul tema. Occorre lavorare tutti insieme per realizzare delle linee guida che offrano un modello di “governance” che neghi la centralità del carcere come unica forma di pena, che affermino l’importanza dello sviluppo delle misure alternative, riconoscano la necessità dell’integrazione, nei rispettivi ruoli, tra ministero della Giustizia, regioni, enti locali, servizi territoriali e società, offrendo le modalità per stabilire un piano organico e stabile, adeguato alle necessità locali, uscendo finalmente dal rincorrere di volta in volta l’emergenza che si presenta. L’attuale drammatica situazione del sovraffollamento impone ancora di più l’urgenza di risposte. Il volontariato della giustizia ritiene necessaria una rapida azione da parte di tutti i soggetti istituzionali e non, coinvolti ed impegnati sui temi della pena e della sua esecuzione.
Accanto all’urgente necessità della revisione delle ben note leggi responsabili di avere portato il carcere a questi livelli di sovraffollamento, è necessario percorrere con coraggio, senza esitazioni, la strada che recentemente Giovanni Tamburino, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha definito di un “carcere leggero” che porti a una prospettiva di “carcere minimo”, a cui bisogna tendere attraverso una pluralità di iniziative e di strumenti.
Su questa strada ci sono alcuni “paletti” che ne segnano il percorso. Anzitutto quello del rifiuto deciso verso forme di privatizzazione delle carceri, una prospettiva che torna ad aleggiare soprattutto in tempi di emergenza. Un altro punto fermo è che il completamento del passaggio, sancito dal 2008, dalla Sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale venga realizzato nel più breve tempo possibile: esistono ancora regioni in difficoltà o addirittura inadempienti, con gravissimo disagio per la popolazione detenuta.
Inoltre, il regolamento penitenziario, emanato 12 anni fa, è di fatto inapplicato nella maggior parte degli istituti: riportare il carcere in condizioni di legalità significa dare compimento alle leggi, anche a questa, impiegando quindi le risorse non per la costruzione di nuovi istituti, ma nella messa a norma delle carceri obsolete e facendo funzionare quelli già edificati.
Se si vuole, poi, realmente perseguire l’obiettivo della riabilitazione, bisogna investire sul personale migliorando l’utilizzo di quello già in servizio e rivedere la proporzione tra la “sicurezza” e il “trattamentale”. Per questo è necessario implementare il personale addetto alla rieducazione.
Sul piano normativo, è necessario che il Parlamento approvi con urgenza la legge che prevede il reato di tortura, affinché fatti, anche recenti, di maltrattamenti, non siano mai più prosciolti a causa dell’inesistenza di tale reato nel nostro codice.
Sul piano culturale, occorre favorire un approccio diverso necessario per far conoscere la realtà del carcere: in tal senso, è giunto il momento di proporre l’istituzione di una giornata nazionale di sensibilizzazione nelle scuole sul tema del carcere organizzando, ove possibile, iniziative intra e/o extramurarie che coinvolgano studenti, detenuti ed ex detenuti, oltre agli altri attori del mondo penitenziario.
Suicidi
Inoltre, il problema dei suicidi. Per porre un argine a eventi estremi, quale il togliersi la vita, pur nella consapevolezza della complessità dei significati di simili gesti, è necessario costruire le condizioni per rendere il più possibile effettivo il diritto all’affettività, attraverso l’implementazione delle visite, di spazi adeguati, di contatti, senza ovviamente tralasciare la presa in carico e la cura delle situazioni più fragili.
Nei mesi scorsi il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato l’intenzione di adottare provvedimenti di carattere strutturale in grado di far recuperare alla pena la sua reale dimensione di extrema ratio, manifestando l’impegno a sostenere nel percorso parlamentare questi provvedimenti. Speriamo che queste intenzioni si traducano presto in fatti. Le numerose tragiche morti di questo mese, non solo di detenuti ma anche di agenti, impongono questa indifferibile necessità.
Un’emergenza alla quale anche il volontariato penitenziario è chiamato a far fronte, incrementando energie e risorse. Ma la nostra disponibilità rischia di essere una risposta generosa quanto ingenua se contestualmente non si accompagna all’attivazione di tutte le risposte istituzionali. Per questo ci attendiamo che, in merito all’esecuzione della pena, anche il resto del Paese, a partire dalla politica, risponda con rapidità e responsabilità.

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