Quei cristiani dietro le sbarre
Da sempre, la società civile s’interroga sulla questione criminale e su quale sia la risposta giusta alla violazione delle leggi penali compiuta dai suoi membri. Nel pensiero cristiano e nella cultura teologica, nel corso della storia, si sono determinati complessi rapporti tra asserzioni teologiche e giustificazioni delle modalità punitive statuali, specie con riferimento all’idea di pena come “ retribuzione “ della colpa.
Credo che la modalità ordinaria di concepire il rapporto colpa/pena, cioè la modalità retributiva, sia radicalmente agli antipodi del messaggio cristiano, perché l’idea che possa nascere un bene ritorcendo il male mi pare esattamente il contrario del concetto di giustizia che emerge dalla Bibbia nel suo insieme.
Amare, non punire
Pensiamo al racconto drammatico di Abele e Caino: entrambi fanno l’esperienza del male e, a prescindere da qualsiasi pena, sperimentano che il male non costruisce. Spesso si veicola il messaggio che il male non si deve fare perché c’è Dio che punisce o perché un giudice ti mette in galera, ma in realtà il male non si deve fare perché di per sé non ti realizza come uomo.
Che cosa fa Dio di fronte all’omicidio, a quest’uomo che si è posto in una condizione d’estraniazione da se stesso? Lo va a cercare, fa il primo passo verso di lui, gli fa prendere coscienza del male commesso, ma poi difende l’omicida dalla vendetta degli uomini. Per i credenti diventa giusto e produce giustizia chi, come Dio, ripete questo passo gratuito.
Qui cogliamo l’aspetto più profondo del cristianesimo, quello che leggiamo sulla croce, nell’abisso del male: fare fino in fondo la volontà del Padre, cioè amare anche il proprio persecutore. Questo è fonte di giustizia e di salvezza: Dio libera dal male con il bene, amando non punendo.
Ebbene, se il cuore del cristianesimo sta proprio in questo ”sappi che è blasfemo pensare di produrre il bene con il male, sappi che l’unica fecondità sta nel bene”, allora, quando pensiamo alle forme giuridiche per intervenire sul male commesso, noi cristiani dobbiamo per primi chiederci non quale sia la pena che ritorce adeguatamente il male, ma quale sia la strada per trovare, di fronte al grave problema della criminalità, strumenti non vendicativi.
Non possiamo rinunciare a domandarci come siano proponibili, anche alla cultura giuridica, le esigenze evangeliche dell’amore e del perdono. Sicuramente in questo senso vanno le proposte definite di mediazione penale riconosciute per legge e già operative nel campo minorile ma pochissimo nel campo del penale degli adulti in Italia.
Due parole dal Vangelo
Per il credente in Cristo ci sono due indicazioni fondamentali suggerite da Gesù: l’una come segno della vicinanza di Dio, anzi, della presenza del regno di Dio su questa terra: proclamare la libertà ai prigionieri; l’altra è l’identificazione della continuazione della presenza di Gesù nei suoi piccoli fratelli tra cui i carcerati: visitare i carcerati (cosa che, se ci pensiamo bene, è normalmente vietata). Nel pianeta carcere troviamo persone detenute innocenti e colpevoli, vittime e aggressori, gente che cerca il cambiamento e gente che non ha ancora deciso di sganciarsi dai propri comportamenti. Uomini e donne, italiani e stranieri, chiusi tra le mura e le sbarre, quotidianamente posti in stato di deresponzabilizzazione. Molti tossicodipendenti e immigrati senza documenti, gente persa dietro a miraggi di paradisi artificiali o in cerca di fortune economiche facili. Uomini e donne che cercano, in modi sbagliati, ciò che tutti cerchiamo, la felicità; o che estremizzano comportamenti che molti fuori delle mura rincorrono: soldi facili o sostanze per sentirsi più forti.
In fondo, i prigionieri non sono nient’altro che l’espressione del volto disumano che ci piace nascondere per non prendere sul serio la presenza del male con cui dobbiamo combattere tutti. Avere qualcuno codificato come “maligno” ci fa sentire difesi e dalla parte del giusto.
Spesso ci dimentichiamo che noi cristiani preghiamo un condannato a morte, uno sospeso tra cielo e terra perché non degno né del cielo né della terra. Quel Condannato è venuto a liberarci dalle prigioni del nostro peccato e a riportarci l’abbraccio del Padre.
La domanda che dobbiamo porci è: chi è detenuto, è degno del nostro amore? A parole penso di sì: il nostro Fondatore chiede di farlo, ma è amabile chi ci entra in casa per derubare, chi ci fa paura perché diverso, chi violenta un bambino, chi sfrutta una prostituta? Liberare i prigionieri è un po’ meno simpatico e non immaginato come realizzazione del regno di Dio, quando diventa una persona con cui non vorremmo mai vivere o avere contatti.
Queste affermazioni possono apparire estreme e hanno bisogno di strumenti concreti per essere reali, ma se già le pensiamo totalmente irrealizzabili non diventeranno mai segni della presenza del Regno di Dio su questa terra. Sono convinto che non potremo abolire totalmente le carceri, ma ridurle di molto sì. Si tratta di scegliere la strada della riconciliazione per fare giustizia.
Tessitori di giustizia
Mi piace molto la definizione di giustizia data dal card. Carlo Maria Martini nel suo libro “Sulla Giustizia”: “Giustizia è la virtù che si esprime nell’impegno di rispettare il diritto di ognuno dandogli ciò che gli spetta secondo la ragione e la legge. Per questo (…) è vasta come il mondo: tocca tutti i rapporti interpersonali e anche tutti i problemi della vita collettiva e delle relazioni internazionali”.
La giustizia che vogliamo costruire non è, pertanto, una questione di scambio di beni (“tu hai fatto questo e paghi con quest’altro”), ma è una virtù che cresce nella società se ciascuno accetta la responsabilità della crescita del bene dell’umanità.
Laddove il diritto non è rispettato (la “certezza della pena” deve valere anche per chi sta dentro!), le lentezze burocratiche bloccano, il disinteresse rispetto alla persona più debole predomina, là è il nostro posto, là va speso il nostro tempo e la nostra intelligenza, le nostre risorse. La giustizia operante, infatti, può essere la più aberrante se non si accorge del volto delle persone, delle loro storie, delle loro fatiche. Chi rappresenta, ad esempio, coloro che non riescono a esprimersi e coloro che non hanno strumenti per farsi riconoscere o insistere per farsi ascoltare?
Ecco perché dobbiamo esercitarci nell’annodare i fili strappati, tessere nuove tele di convivenza, portare la pena a un senso di reciprocità sociale: questo significa essere tessitori di giustizia.
Siamo convinti inoltre che, assieme ad altri, dobbiamo proporre nuovi strumenti legislativi, nuove prassi di riparazione sociale che portino la giustizia a essere più equa, più capace di rafforzare e ricostruire i legami.
La giustizia del cristiano
Se è vero che la giustizia è prioritaria rispetto alle azioni di solidarietà e carità, è altrettanto vero che, senza l’amore, diventa fredda e impersonale, non scalda il cuore e, alla fine, può rischiare di diventare una mera accozzaglia di trucchi per pareggiare i conti: “giustizia è fatta” perché formalmente ne usciamo pari.
Di solito il senso d’ingiustizia che si alimenta è di tipo economicista che non appaga né l’offeso né l’offensore. Gli aspetti più affettivi, psicologici e anche spirituali, nel senso ampio del termine, sono lasciati fuori. D’altronde, l’amicizia, la solidarietà vera, l’affetto, il perdono, la riconciliazione non possono essere trovati attraverso una legge; possono essere favoriti da leggi che li promuovono o li facilitano. Possono essere vissuti entrando in una relazione gratuita, che è il compito specifico del cristiano sull’esempio del proprio maestro.
Siamo chiamati, quindi, a portare, nell’amministrazione della giustizia, l’afflato caldo della vicinanza, come elemento basilare per costruire il rapporto e rimarginare le ferite. In definitiva il cristiano è costruttore di giustizia, agendo come “uomo di rapporti solidali e riconciliativi”: questa è la sfida e la “vita buona” in Cristo che la comunità cristiana nelle carceri, per prima, è chiamata a vivere e testimoniare dentro e donare come dono alle altre comunità ecclesiali.
I cristiani, in particolare, sono chiamati ad accettare la sfida evangelica di prendere su di sé il male e spezzarne le catene per liberare. Ciò che è vero per ogni credente, lo è in particolare per il credente in Cristo che avvicina gli uomini che sono definiti dalla società delinquenti, peccatori pubblici, per usare le categorie del tempo di Gesù.
Il malfattore codificato richiede anch’esso di essere giustificato nel senso cristiano di essere salvato. Non molti sono disponibili a dare la vita per le persone amiche, a noi è chiesto di darla laddove altri non vogliono. Nessuno è giusto davanti a Dio, lo si diventa anche operando nel mondo del penale per dare dei segni che la giustizia è vera se salva l’altro gratuitamente, come Dio fa con noi.
Qui si colloca anche la ricerca e la costruzione della possibilità del perdono (da non confondere col perdonismo), di cammini di ricerca impegnativa e responsabilizzante per chi commette reati, per promuovere una cultura che abbatta i desideri di vendetta e ritorsione e realizzare percorsi che accolgano le esigenze di giustizia delle vittime.
Le comunità ecclesiali
La prima indicazione per le comunità ecclesiali è il riconoscere che vi è una comunità cristiana in carcere. L’impegno pastorale della Chiesa è volto sia a far vivere la libertà religiosa e l’appartenenza ecclesiale, l’accesso ai sacramenti, alla catechesi e al sostegno spirituale per i suoi fedeli sottoposti a provvedimenti penali che precludono od ostacolano la possibilità di vivere quel diritto nelle comunità ecclesiali di appartenenza, sia a evitare che simili provvedimenti rendano non disponibile ai loro destinatari, ove intendano accoglierla, l’attività di evangelizzazione.
Del medesimo impegno pastorale è in ogni caso componente irrinunciabile la testimonianza della carità, anche sotto il profilo della risposta a obiettive esigenze umane o materiali, in favore di tutti i soggetti che subiscono provvedimenti restrittivi, senza distinzione alcuna circa le scelte religiose.
La presenza della comunità cristiana nell’ambito penale attesta che dinnanzi a Dio e in rapporto alla libertà cui Egli chiama non vi è distinzione fra gli esseri umani fondata su provvedimenti giudiziari. Nello stesso tempo, essa mira a favorire una matura rielaborazione della vita passata, che apra al sincero pentimento circa eventuali responsabilità e, in tal caso, all’impegno per la riparazione e la riconciliazione.
Ciò significa rendere tangibile che nessuno è escluso dall’azione salvifica divina e dall’appello alla conversione. Si tratta, dunque, di testimoniare che, nonostante l’asprezza della condizione di non libertà, è possibile sperimentare attualmente la vicinanza e la misericordia di Dio, aprendosi a stili di vita ispirati all’amore piuttosto che alla prevaricazione.
Anche nell’amministrazione della giustizia le comunità cristiane, dentro e fuori, sono chiamate a fare opera di discernimento, valorizzando ciò che promuove il bene di tutti, ma anche denunciando le scorciatoie che promuovono più vendetta che giustizia.
Per questo in ogni diocesi sarebbe importante che si costruisse un luogo di riflessione pastorale nel mondo del penale che promuova l’ascolto e l’accoglienza delle vittime e delle loro famiglie, la condivisione dei cammini umani ed ecclesiali delle persone sottoposte a misure penali, la comprensione del lavoro degli operatori della giustizia e l’approfondimento deontologico del loro operare, l’ascolto, l’accompagnamento e la valorizzazione per le persone detenute e le loro famiglie, la promozione del dialogo fra le religioni in contesti di forte conflittualità, la formazione di un volontariato competente, delle opere-segno di accoglienza nelle nostre comunità parrocchiali, dei cammini di riconciliazione, la promozione di comunione tra le persone e tra le azioni progettuali, delle progettazioni a partire dai più svantaggiati.
Siamo chiamati altresì a verificare costantemente che in ogni azione si stia davvero producendo un cambiamento di mentalità, cioè di conversione, che ci faccia abbandonare qualsiasi desiderio di vendetta. Nella società la Chiesa, con il contributo dei credenti operatori nell’amministrazione della giustizia, è chiamata a promuovere leggi che abbattano la scorciatoia del carcere nell’affrontare il male e privilegino strumenti conciliativi.