L'altra giustizia
Il fatto che rispetto all’“universo carcere” si viva un momento di continua emergenza, in Italia, è sotto gli occhi di tutti. Personalmente sto conducendo da tempo una ricerca, che fatica ancora a prendere definitivamente corpo, perché i dati sono difficilissimi da raccogliere. L’attenzione mia e dei miei collaboratori si va concentrando sulle annose questioni del diritto alla salute dei detenuti, sul sovraffollamento, sul suicidio e, in particolar modo, sulla psichiatrizzazione degli istituti di pena, uno dei temi quest’ultimo, a mio modo di vedere, più dirompenti nell’ambito dell’attuale ricerca socio-criminologica.
Sofferenze psichiche
In breve, un dato allarmante, che è ormai sotto gli occhi di tutti, è che molti malati psichiatrici, molti sofferenti psichici, pur non essendo incapaci di intendere e di volere – e, quindi, non potendo essere prosciolti e inviati negli ospedali psichiatrici giudiziari, se pericolosi – finiscono per una serie di variabili psicosociali, in carcere per avere commesso un reato (spesso non grave), dopo essere stati “assidui frequentatori” di presidi medico-psichiatrici. Alcuni dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risalenti al 2004 parlano di un detenuto su quattro che, anche se non è portatore di un disturbo mentale grave, richiede però un’attenzione dal punto di vista della diagnosi e della cura, farmacologica e non. Questo dato suggerisce che il carcere, oltre a essere un luogo di espiazione della pena, è divenuto anche, senza quasi accorgersene, un’istituzione sempre più affollata e abitata da persone sofferenti da un punto di vista psichico.
L’orgoglio sbandierato, almeno da alcuni di noi, per l’entrata in vigore di una legge, la cosiddetta Legge Basaglia, che nel 1978 ha avuto il grande merito di iniziare un percorso di deistituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici, fino ad arrivare alla loro completa chiusura e alla ridefinizione dei parametri della malattia mentale, sembra infrangersi oggi proprio su questo dato empirico.
Generalizzando, la logica che anima le politiche penitenziarie nelle democrazie tardo-moderne occidentali è quella dell’incapacitazione, della neutralizzazione della pericolosità sociale dell’autore di reato. Detto altrimenti, si vuole rendere inoffensivo, attraverso la custodia, chi delinque. Alcuni studiosi d’oltreoceano sostengono, a mio modo di vedere correttamente, che così facendo si è finito per restituire al carcere lo splendore delle sue origini, così bene descritto da Michel Foucault quasi quarant’anni addietro. Il corollario di queste politiche è la rincorsa all’edificazione di nuove carceri, nel nome della quale stiamo sacrificando ogni capacità di pensare e di progettare una società più giusta. L’angoscia paranoica di essere invasi da presenze oscure e terrificanti, individuati nei delinquenti che escono nottetempo dai tombini, che arrivano nel nostro Paese travestiti da migranti da tutte le parti del mondo, che sbarcano pronti a saccheggiarci, si è impossessata di molti di noi. Chi, infatti – se il discorso è impostato in questi termini –, non si sente legittimato a pensare che le carceri debbano contribuire significativamente a svolgere la funzione di rendere la società più sicura, rinchiudendo il maggior numero possibile di predatori (reali o virtuali)? Queste torsioni politico-criminali – occorre dirlo senza infingimenti – stanno svuotando di senso, almeno in parte, il contenuto dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana, secondo cui la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato; eppure sono convinto, e con me lo sono tanti altri, che tutto quello che viene proposto/imposto da un’ampia rappresentanza politica e dai media quale unica logica possibile e condivisibile ha, al contrario, delle alternative. Semplicemente, noi non vogliamo che l’umanità sia cancellata dal carcere.
Soliloquio
In questi anni sto lavorando su una parola (divenuta a sua volta un progetto) che mai avrei creduto di rispolverare facendo il criminologo e occupandomi di detenuti che commettono reati gravissimi. Questa parola è: “soliloquio”. Negli ultimi anni della mia vita ho iniziato difatti a pensare che, in certe condizioni, il carcere può paradossalmente diventare un luogo in cui la riflessività e il soliloquio possono costituire un elemento di operatività. In particolare, il mio lavoro con i detenuti per i crimini violenti (cfr. A.Ceretti-L.Natali, Cosmologie violente, Cortina 2009) si declina sempre più per riuscire a promuovere in loro una dimensione riflessiva, vale a dire rendere meno sorda e poi progressivamente più profonda e consapevole quella conversazione interiore che il reo svolge incessantemente in relazione al gesto violento che ha commesso. Sì, perché al reo capita quello che succede a ognuno di noi: quando facciamo qualcosa, di bene o di male, stiamo dialogando con qualcuno. E questo qualcuno diventa per noi un altro significativo; sono i nostri altri significativi che entrano massicciamente nelle decisioni che dobbiamo prendere, quando per esempio decidiamo di ricorrere alla violenza per risolvere un conflitto. Una persona che si osserva e dialoga con se stessa e con i propri altri significativi (ovvero chi conta nella vita di ogni individuo, coloro che hanno segnato, anche affettivamente, il corso della propria esistenza) può, in certe condizioni, iniziare anche un percorso di cambiamento. Solo se si tengono presenti queste premesse il carcere può – lo dico con grande prudenza – divenire un’istituzione che non cancella le esistenze degli altri, e che inizia al contrario a riconoscere, a vedere, a incrociare il volto del detenuto, a “contare per uno” ciascun recluso.
Quando qualcuno ha commesso delitti atroci è difficile incontrare il suo volto e reggere il suo sguardo. Molto spesso il volto di chi ha commesso il male costringe il suo interlocutore ad abbassare gli occhi perché ingenera paura, angoscia, repulsione. Ma ciascuno di noi è migliore del male che ha commesso e delle sue peggiori azioni. Io parto sempre da questo punto di vista quando mi trovo di fronte chi ha ucciso. L’atteggiamento è quello di pensare di non aver di fronte solo chi ha tenuto un comportamento esecrabile dal punto di vista morale e/o giuridico come può essere un omicidio. È importante, al contrario, domandarsi chi è che vive “attorno” a quel gesto che tutti definiamo come male assoluto, chi è davvero colui o colei che ha tolto la vita a una persona, che ha ferito con la stessa veemenza anche la famiglia della vittima, che ha disonorato e precipitato in una miseria morale i propri genitori. Occorre chiedersi con chi dialogava la persona mentre commetteva quel fatto terribile, e quale problema di sé cercava di risolvere, che cosa cercava di dire e ottenere commettendo quel delitto. Dobbiamo avere il coraggio di porci queste domande se desideriamo incontrare gli altri e il male che hanno commesso.
Io sono d’accordo con Cristiano Barbieri (A.Verde-C.Barbieri, Narrative del male, Franco Angeli 2010) quando scrive che la narrazione rappresenta il primo dispositivo conoscitivo-interpretativo utilizzato dall’uomo nel suo discorso esistenziale, perché è principalmente attraverso il racconto che l’uomo ricerca il senso delle sue esperienze. E affinché questo racconto avvenga senza condizionamenti, almeno da un punto di vista del contesto esterno, è necessario che i vincoli, rispetto ai quali esso fluisce, siano il più possibile ridotti.
Nel corso di una perizia, ad esempio, chi narra non potrà mai sentirsi libero di esprimere serenamente le sue risonanze interiori, essendo la sua narrazione destinata a una valutazione che riguarda la capacità di intendere e di volere e dalla quale dipende, come sappiamo, il proprio futuro. Se il contesto è, invece, quello della giustizia riparativa il registro muta: in mediazione si può dare a una persona (vittima/reo) la possibilità di riferire il senso più profondo e autentico delle proprie esperienze e di come ha conferito, nel corso del tempo, un significato alle situazioni e agli eventi che ha vissuto. Il piano di intervento aperto dalla giustizia riparativa e dalla mediazione è, infatti, assai diverso da ogni altro spazio aperto dalla giustizia formale, la cui razionalità e le cui funzioni non possono mai, in ogni caso, essere messe in secondo piano. Lo strumento operativo principale del mediatore è dato principalmente dalla parola, una parola capace di promuovere relazioni empatiche e di predisporre all’ascolto reciproco, dal quale può emergere una possibilità di incontro e di riparazione simbolica.
Giustizia riparativa
Quotidianamente accadono fatti atroci che, ogni volta che accadono, costringono a chiedermi: “Se capitasse a me, sarei all’altezza dei discorsi che sto facendo?”. Rischierei anch’io di finire nel gorgo delle parole cariche di vendetta, così come avviene in TV? Proviamo a fare un esempio paradigmatico rispetto a questa domanda.
Un signore rumeno, ubriaco, investe con la sua auto una persona e la uccide. Intervista in televisione al padre della vittima poche ore dopo il delitto. Intervistatore: “Lei che cosa desidera per l’assassino di suo figlio? Lo perdona?”. Risposta: “No di certo, desidero per lui la pena di morte e, se possibile, anche il vilipendio di cadavere…”. Sono sicuro che queste espressioni non mi appartengono e non mi apparterranno. Mai. Resta il fatto che la nostra società costruisce le premesse affinché la televisione possa fare emergere, senza troppe censure, dichiarazioni di questo genere, che talvolta non sono condivise fino in fondo neppure da chi le pronuncia.
Come uscire, allora, dalla logica della vendetta che il processo finisce per fare sua attraverso altri linguaggi e altre logiche? Naturalmente è impossibile rispondere compiutamente. In sintesi, il modello della giustizia riparativa prova a rompere questa logica perché si fonda sostanzialmente sull’incontro tra il volto del colpevole e il volto della vittima, creando le premesse affinché costoro possano reggere lo sguardo reciproco, senza rimanere l’uno accecato dal senso di colpa, l’altra dal desiderio di vendetta, dall’odio, dal rancore.
Nella giustizia riparativa, infatti, la vittima, il reo e la comunità vanno alla ricerca di soluzioni agli effetti distruttivi che i conflitti generati dai reati hanno prodotto. Tutti aiutati da un facilitatore della comunicazione, una persona debitamente formata che segue una metodologia molto rigorosa, che parte dalla parola, che promuove l’ascolto, un ascolto reciproco che si fonda sull’empatia e che promuove a sua volta la possibilità di un incontro.
Promuovere una libertà tenendo conto di quello che uno ha fatto, non significa essere oblativi, dei buonisti o dei perdonisti. Spesso a ci accusa di buonismo dico: “Provateci voi a mettere i parenti della vittima di un omicidio di fronte all’omicida. Provateci voi a chiedere a un terrorista d’incontrare un parente della vittima e vedrete quanto buonismo c’è in tutto questo!”
Si tratta, dunque, di cominciare ad avere la forza e il coraggio di pensare che la parola “giustizia” possa essere declinata antropologicamente anche in un modo diverso da come l’abbiamo declinata fino ad oggi. È qui la grande scommessa: coniugare sempre più la giustizia con l’umanità.