CONCILIO

Due secoli in ritardo

L’11 ottobre 1962 si apriva il Concilio Vaticano II.
Oggi lo ricordiamo, lo celebriamo, lo rileggiamo cogliendone la sua forza innovativa.
Giancarla Codrignani

“La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità. Il sogno dello storico Eusebio di Cesarea è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami fino a ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici”. Così don Giuseppe Dossetti ai presbiteri di Pordenone il 17 marzo del 1994.

Quale cristianità?
Una riflessione amara lontana nel tempo, ripresa, anche se con il ritardo di vent’anni e riferita esclusivamente alla Chiesa, dai “due secoli di ritardo” denunciati dal cardinal Martini o dalle analisi desolate di Hans Kung e di Leonardo Boff che non prevedono futuro per “questa” Chiesa. Josè Maria Castillo esplicita: è il “sistema romano” che danneggia la fede del popolo di Dio, perché risulta difficile pensare che la prassi vaticana somigli “alla semplicità del Vangelo e alla prossimità di Gesù con i più disgraziati di questo mondo”. Così, una Chiesa “lontana dalle sue origini e dalla sua ragion d’essere” perde credibilità e viene abbandonata da tanti che credono in un’altra immagine della religione.
Sono spesso parole dure – che significano, tenendo conto che sono parole di religiosi, sofferenza profonda – quelle che commentano i cinquant’anni del Concilio Vaticano II.
In Vaticano le critiche vengono ritenute parole di nostalgici (“è umanamente comprensibile che chi ha vissuto nella sua giovinezza l’entusiasmo legittimo dell’assise conciliare... uno stato d’animo emotivo”, secondo il cardinal Piacenza, prefetto della Congregazione per il clero), ma l’accusa di essere “fuori linea” sta dietro il compatimento.
Vale, tuttavia, la pena di ricordare che la tendenza a rivolgersi alla tradizione e al passato quando si attraversano le crisi non è propria solo dei prelati. Il periodo storico attuale – proprio come avvertiva anticipatamente il Vaticano II – contiene, nella sua sostanziale ambiguità, dei “segni” che non andrebbero elusi, almeno finché c’è tempo. La storia di questi anni è certamente storia di una forte transizione e occorre che chi, come le Chiese (e i governi), ha responsabilità statutarie deve tenerne conto particolare per non lasciare i suoi nella confusione, nella paura, nell’impotenza.
I dati di realtà ci dicono che i sessantenni di oggi andavano alle elementari quando si apriva – e si chiudeva – il Concilio. Anche la base cattolica, in particolare italiana (di cui è tristemente nota la disinformazione, se non l’inveterata ignoranza), non ha chiara coscienza dei contenuti di un Concilio condannato dalle gerarchie nel post-Concilio perché “pastorale” e non dogmatico: oggi assiste allo svuotarsi graduale delle chiese o al folclore di vecchie ritualità festive. Anche i laici critici non hanno saputo portare in pubblico e nelle diocesi le proprie argomentazioni; oggi viene accusata la secolarizzazione: falso obiettivo, se è vero che, ormai, le esigenze spirituali non trovano quasi mai risposta nelle chiese.

Nuovi segni
Papa Giovanni XXIII, con il coraggio che derivava da fede autentica, nell’enciclica Pacem in terris aveva usato il metodo di indicare i “segni dei tempi” in riferimento anche a eventi umani e sociali che dovevano provocare responsabilmente l’impegno dei cristiani. Allora erano i diritti del lavoro, la liberazione dei popoli oppressi, la parità delle donne, obiettivi forse in qualche modo realizzati, anche se i diritti sono sempre a rischio di arretramento e lontana ne resta l’universalità.
Per questo, occorre far posto a “nuovi segni” di tempi che siano nostri e interpellino il futuro. Riguardano in primo luogo la Chiesa, responsabile (tralasciamo deliberatamente le miserie di peccati bancari e fiscali o di pedofilia) di ritardi e inadempienze alla Gaudium et Spes: intanto l’introduzione della “povertà della Chiesa”; poi la collegialità e il rovesciamento della piramide che ancora vede il Popolo di Dio soggetto al divieto della parrhesia e condannato all’obbedienza formale. Ancora: l’urgenza di rileggere la Parola alla luce delle esigenze comunicative e culturali attuali e il rinnovamento liturgico. Di conseguenza, la libertà della ricerca teo-logica senza censure che mortificano la libertà e la fraternità cristiane. Ancora: il ripensamento della negazione della corporeità e della sessualità umane, nonostante la nostra fede si fondi sull’incarnazione. Sarà “segno” grande la priorità da dare all’ecumenismo e alla libertà religiosa: se ricordiamo i progressi nella relazione con l’ebraismo, urge spalancare le porte al dialogo con l’islam. C’è incertezza che sia “segno” la presenza della donna nei ministeri, non foss’altro perché le donne ne fanno una questione di principio, non di ruolo clericale; eppure sarebbe forse un recupero dovuto alla volontà di un Dio che creò la donna dalla materia organica dell’uomo plasmato dal fango e a farsi madre del Salvatore.
Ma i tre “segni” di papa Giovanni erano soprattutto indicatori laici di valori comuni, quasi frecce segnaletiche per la responsabilità creativa dei credenti. Se ripetiamo il metodo, scopriamo tutte le nostre omissioni. In primo luogo, una più forte condanna della guerra e, di conseguenza, la soppressione dell’Ordinariato militare e la promozione di azioni per il disarmo e il ridimensionamento del commercio delle armi. Sarebbe un “segno” nei confronti della scienza, spesso problematica, non ricorrere al divieto tardivo quando alcune innovazioni sono già in essere, ma studiarne preventivamente l’evoluzione nel rispetto della dignità e libertà delle coscienze. Analogamente, è tempo di aprirsi all’accoglienza sociale di LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) e ai diritti – non solo assistenziali – degli immigrati. Non ultimo il “segno” che obbliga a tutelare e conservare l’ambiente, che le Chiese chiamano il creato. E si potrebbe continuare.

Doveri pastorali
La Chiesa, infatti, ha dei doveri, appunto, “pastorali”. Deve pensare alla qualità del futuro, senza paure e senza stanchezze. Anche perché tutte le religioni – tranne, forse, e solo in qualche misura, quelle orientali –- sono in crisi di autorità e rimediano con l’aggressività quando si sentono minacciate. Gli scenari del mondo e, in particolare, di quella parte che si configura attorno al Mediterraneo e riguarda l’Occidente europeo, hanno bisogno di un attraversamento dei conflitti che prevenga conseguenze di maggiore violenza. Benedetto XVI in Libano – un Paese pericolosamente a rischio di qualunque tensione che si sviluppi nell’area mediorientale e che ha conosciuto le violenze di Sabra e Chatila ad opera dei falangisti cristiani – ha chiesto che tutti siano al servizio della giustizia e della pace perché “il fondamentalismo è sempre una falsificazione delle religioni perché Dio invita a creare pace nel mondo” e tutte le religioni vietano di uccidere. Proprio nel senso della libertà religiosa è necessario non limitarsi al riguardo formale, ma accogliere il mondo musulmano con il rispetto dovuto ai milioni di credenti che seguono, non senza problemi di interne differenze, la parola del Corano secondo la volontà di Maometto che, due secoli dopo Ambrogio, credette nel dio unico e auspicò una convivenza di pace e solidarietà tra gli umani.
Il prossimo sarà ufficialmente per i cattolici l’“anno della fede”. Perché sia tale – ciascuno secondo la propria coscienza e possibilmente lavorando insieme – accogliamone la grande responsabilità. Forse, abbiamo incominciato a sentire che è in gioco il destino della “Chiesa di tutti”.

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