Sognavo di correre

Una maratoneta azzurra si racconta. Il sogno di correre, di leggerezza e di record da raggiungere. Ma il senso delle cose non passa solo e sempre attraverso la vittoria. Lo sport come vera metafora dell’esistenza.
Lucilla Andreucci (ex nazionale di maratona, oggi responsabile dell’Uff. Stampa del Gruppo Sportivo Forestale)

Montale scriveva: “Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta”.
Anche le mie notti sognavano di corse. Per quasi vent’anni non ho fatto quasi altro. Il perché ancora non lo so. So che dentro la corsa ho trovato un sacco di cose: la libertà, la semplicità, il contatto con la terra, un cielo da toccare, la leggerezza.
Inizio molto presto (13 anni) a sentire che la corsa mi appartiene. Studio, e continuo a farlo anche dopo il liceo classico, mi iscrivo all’università: Biologia. Mi laureo, ma so e sento che nella vita sarò un’atleta.
Essere un’atleta: indossare tutti i giorni le scarpe da corsa e correre, correre, ecco il lavoro più bello del mondo.
Ricordo i primi raduni. Tirrenia, nel centro federale, che per tanti anni ha accolto grandi campioni dell’atletica: Gelindo Bordin , Francesco Panetta, Maria Guida, Stefano Baldini.
Comincio nella pineta vicino al mare a capire che cosa significhi allenarsi. Misurarsi con atleti più forti. Sentirsi spesso in apnea ma tenere duro. Cronometro e tabelle da rispettare, dentro e fuori dal campo.

Scelte e obiettivi
Ecco il primo insegnamento. La vita dell’atleta è fatta di scelte.
Anche se da adolescente puoi concederti tutto, l’agonismo ti spinge a uno stile di vita che privilegi l’ordine. Ordine per come mangi, dormi, vivi, pensi.
Secondo punto. Avere degli obiettivi. Trascorro la mia gioventù a Roma. Ma la corsa mi chiede sempre più spazio e decido di cambiare. La mia vita sportiva in una valigia. Così è stato, sempre.
Un allenatore milanese, incontrato in un raduno in Svizzera, mi conquista. Primo viaggio, inseguendo quel sogno. Direzione nord.
Intorno all’ippodromo di San Siro, conosciuto ai più per i vicini rosso-nero-azzurri del calcio, hanno macinato chilometri atleti come Francesco Panetta e Alberto Cova. Giorgio Rondelli, che oltre loro ha allenato anche me, ha provato a insegnarmi a tenere la testa bassa, senza guardare la cornice spesso trafficata e inquieta di quel pezzo di strada sportiva.
E proprio su quelle strade io ho corso la mia prima maratona. 42 chilometri in allenamento, in un anello di sette chilometri. Era il protocollo di chi voleva diventare un vero maratoneta. E nello sport, forse non solo, nessuna teoria vale come la pratica.
Il primo sogno si realizza con la convocazione in nazionale. Vinco un titolo italiano di mezza maratona a Verona. Esordisco sulla stessa distanza in Francia. Il battesimo con la maglia azzurra e il giuramento che lo precede sono uno dei momenti indimenticabili nella vita di un atleta.
“Giuro di impegnarmi con tutte le energie fisiche e morali con assoluta lealtà per l’onore della maglia azzurra che è il simbolo sportivo della mia patria”.

In vetta!
Ecco, quello che posso dire con certezza assoluta, e con la lealtà che mi è stata trasmessa nel codice genetico da chi mi ha cresciuto: ho vinto e forse perso anche di più, ma alla corsa ho dato tutto quello che avevo, con le mie personali e caratterizzanti contraddizioni, e non ho mai bluffato.
L’agonismo è qualcosa che ti cresce dentro sin da piccolo, nessuno te lo insegna. È ingorda quella fame di misurarti e di salire sulla vetta, sempre e comunque, quasi fosse lei l’imbrago per l’arrampicata.
Ecco, quella fame devi imparare a nutrirla anche con altro. Perché il senso delle cose non deve e non può passare solo attraverso la vittoria. Un memorandum che anche il più grande campione appunta nel suo diario.
Ho viaggiato tanto. Tra le cartoline che porto con me: un mese di raduno in Australia. Mi infortuno dopo una settimana, ma mi godo quel sentirmi dall’altra parte del mondo. E la Namibia, le corse su strade sterrate con i colori di un cielo che invita a non abbassare lo sguardo.
Quasi vent’ anni di sport.
Pieni pieni di tante cose: traguardi raggiunti, alcuni sfumati. Come l’Olimpiade. O la maratona di Roma. Io romana, nata come atleta sulle strade della mia città. Ho corso un po’ ovunque, ma non a “casa mia”. Per due anni sono stata iscritta al via, ma a poche settimane dalla gara, per tutte e due le volte, qualcosa del mio corpo ha tradito.
Lasciamo l’analisi psicologica sul perché questo sia accaduto, certo è che quella luce spenta davanti al Colosseo è ancora oggi un ricordo che mi emoziona. Ma lo sport è come la vita. Magicamente e severamente imprevedibile.
La scaramanzia nei momenti di fragilità è una piacevole tentazione. Ma a dispetto della cabala, io ho sempre amato il numero 17 e la pioggia. Il numero che si attacca sulla maglia, gli atleti non lo trascurano. E il 17, almeno a me, portava fortuna.
Come l’acqua
Così come l’acqua. Il giorno del mio titolo italiano sui 5000 metri a Milano, e sempre a Milano la maratona, corsa con il mio miglior tempo, pioveva, oh come pioveva! Ma quando le gambe girano, la testa è leggera, e l’acqua fa scivolare ogni stanchezza.
Nel 2007, dopo un paio di anni in panchina per una serie di acciacchi , e 37 anni sulle gambe, mi ripresento alla partenza di quella che sarà la mia ultima maratona in Italia. Lo sanno i miei tendini affaticati e i muscoli tesi, sono loro che decidono. Ma nei 42 chilometri di Padova un secondo posto mi fa risentire giovane e strappo con i denti un’ultima convocazione in nazionale: i mondiali di Osaka in agosto.
La maglia azzurra, la stessa indossata 10 anni prima, ha lo stesso colore ma il peso è diverso. Pesa insieme alla coscienza di essere vicina al capolinea. Dare tutto a 37 anni ha un significato e un sapore diverso.
Il mio risultato quel giorno di agosto è tecnicamente modesto ma, come 10 anni prima, non mi tiro indietro, neanche davanti a un 56° posto. Arrivo quasi camminando al traguardo, e insieme a quel tentennare camminano solide, forti e ben distese tutte le certezze. La mia carriera finisce lì e lì finisco di inseguire il sogno.
Ex atleta. Ecco il capitolo più duro nella vita di uno sportivo.
Il lavoro più bello del mondo ha una durata così breve che non fai in tempo a equipaggiarti emotivamente a quel dopo. Imparare a decelerare, dopo aver vissuto con il pedale schiacciato, è un allenamento che nessun tecnico insegna a un atleta.
Ma tutto si impara. Io ho imparato lentamente a togliermi il cronometro dalla testa e a sentirmi in equilibrio in una quotidianità più sedentaria Abituata a pormi sempre un traguardo da raggiungere, ho però fatto fatica a scegliere dove posare per un po’ la mia vita.
Per una coincidenza positiva ho conosciuto da dentro “Libera. Associazioni, nomi e numero contro le mafie”. Un coordinamento di oltre 1600 associazioni, scuole, che si impegnate a costruire percorsi che stimolino una sempre più attiva cultura di legalità e di giustizia.
E nel mio desiderio di un’Italia diversa da quella in cui oggi vivo, ho pensato di portare, attraverso lo sport, un messaggio positivo in luoghi e posti insoliti. Una corsa in terreni e beni sottratti alla criminalità organizzata. Insieme ad altri ex atleti, volontari di Libera e colleghi del Gruppo sportivo Forestale, abbiamo coinvolto quasi 2000 ragazzi delle scuole medie di diverse regioni d’Italia.
E lo sport, nel suo valore più nobile, ha la dote di aggregare, sgretolare tutte le gerarchie sociali. La corsa mette tutti ai nastri di partenza con la stessa maglia e con la stessa possibilità di giocarsela fino in fondo. E’ un goccio di democrazia che dà fiducia.
Lo sport può essere agonismo puro, ma anche gioco, divertimento, l’unico linguaggio che anche sulla torre di Babele non avrebbe avuto bisogno di interpreti.
Lo sport può essere rivincita quando la vita si frattura.
Così insegnano i quattromila atleti che hanno partecipato alle Paralimpiadi di Londra. Non esistono barriere né privilegi. Conta il cuore, la testa, il fiato e la lealtà.
La sport ti può ridare l’adrenalina di ricominciare. Come per Mario, mio amico e grande atleta, che sognava di andare a gareggiare a Londra e oggi fa i conti con un linfoma. È forte Mario. E nella testa insegue il sogno di ritornare a correre.
Lo sport insegna: a non mollare, a credere in te stesso, a rinunciare a qualcosa in nome di una più importante, a sentire dolore dappertutto ma a non perdere di vista, proprio in quei momenti, il privilegio di stare facendo una cosa meravigliosa come l’atleta.
Oggi le mie corse sono saltuarie. Preferisco, e sento che lo devo al quel grande pezzo di vita che c’è oltre lo sport, rimettermi in gioco su un’altra strada.La passione, come tutte, resta. Ma ho voglia di imparare a “camminare”.

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