Libertà e lavoro
L come libertà e come lavoro. Non fraintendetemi. La frase “Arbeit macht frei”, cioè il lavoro rende liberi, è normalmente associata ai sinistri campi di concentramento nazisti, in particolar modo ad Auschwitz, sul cui cancello campeggia ancora in ferro battuto. Sembra che a voler collocare lì quell’insegna sia stato il maggiore Rudolph Höss, comandante del campo. Contrariamente a quel che appare, non era stata intesa come una beffa o una sorta di dichiarazione di condanna definitiva e inappellabile, come l’altrettanto celebre cartello dell’inferno dantesco. Nel misticismo delirante e mistificante del suo ideatore nazionalsocialista, doveva suonare come una sorta di “massima eterna” sugli effetti benefici di un sacrificarsi in maniera illimitata, che alla fine avrebbe arrecato un’intima libertà spirituale. E tuttavia di fronte a quel che lì succedeva e sarebbe successo, persino l’insegna dantesca sembra riduttiva: “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente…. Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” (Inferno, canto III).
Non ci sono dubbi che quel campo sia stato un concentrato di inferno su questa nostra terra e che, se non si possono pensare esempi storici più orrendi e perversamente lesivi della libertà, Auschwitz, Dachau e gli altri luoghi simili sono certamente quelli nei quali l’aberrazione e la disumanità hanno toccato il fondo.
Ripartiamo, tuttavia, dall’assunto che congiunge libertà e lavoro, per indicare ciò che ne sostiene, positivamente, la plausibilità, e che è la chiave non tanto del discorso, ma della realtà di ciò che si vuole affermare. Il punto di avvio può essere un’altra frase, che probabilmente è stata l’associazione di partenza, distorta e piegata ai propri interessi propagandistici e pseudo-mistici del nazismo, alla stessa stregua del motto Gott mit uns (Dio è con noi), utilizzato in maniera blasfema sulle uniformi delle famigerate SS. Sì, davvero mancanza di verità, anzi stravolgimento totale della verità!
La frase da cui muovere è allora: “La verità vi farà liberi” e la troviamo pronunciata da Gesù nel Vangelo di Giovanni (Gv 8,32). La verità. Appunto ciò che mancava e che manca in ogni sistema oppressivo, che nel suo delirio di onnipotenza, crede di piegarla al proprio arbitrio, come fa degli esseri umani.
Senza poter qui entrare nella tematica del Vangelo di Giovanni, in cui la Verità, alla fine, è da scrivere con la maiuscola perché s’identifica con Cristo, soffermiamoci solo su un primo livello d’interconnessione, quello che collega il lavoro e la libertà e li collega appunto attraverso la verità. Collega entrambi in maniera così inestricabile a questa, che senza la verità il lavoro non può assolutamente essere né espressione né frutto di alcuna libertà. Il lavoro è ciò a cui Dio ha chiamato l’uomo fin dall’inizio, perché questi fosse suo collaboratore nel prosieguo dell’opera della creazione: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Ciò accadde prima di ogni altro evento storico, prima ancora della “caduta originale”. Si tratta di un incarico affidato all’essere umano per la collaborazione con Dio e pertanto richiede innanzi tutto che non venga mai lesa l’impronta divina che l’uomo ha. Esige che non venga mai offuscata questa verità. È vero: la Bibbia narra di un momento successivo a tale primordiale affidamento del mondo alle mani dell’uomo. Narra di quando il lavoro è diventato fatica, per la sopraggiunta asperità di una natura che si rivolta contro l’uomo, similmente e consequenzialmente al fatto che questi si è rivoltato contro Dio. È il peccato originale, appunto il peccato delle origini. Ma prima ancora non era così, né deve essere per forza così, dato che la redenzione ha prodotto e va producendo i suoi effetti di risanamento sui diversi piani sconvolti dall’egoismo umano insito nel peccato delle origini, che diventa peccato storico, originante, a sua volta, violenza e sopraffazione. Riconciliandolo con Dio, la redenzione operata da Cristo ha, invece, riconciliato e va riconciliando l’uomo con se stesso, con gli altri, con il cosmo e dunque con il lavoro. Se non fosse così, lo stesso Gesù, che di certo conobbe sia il lavoro sia la fatica, sarebbe vissuto e morto invano.
Tra terra e cielo
Di fatto, Gesù conobbe la libertà dell’esprimere la sua umana creatività di artigiano, lavorando come falegname, dopo che qualche miliardo di anni prima c’era stata l’inenarrabile esplosione di quella libertà divina, che era ed è anche infinita liberalità, nella notte dei tempi, con la creazione del cosmo. Allora, quando il buio aveva cominciato a distinguersi dalla luce, perché la luce finalmente era stata accesa, Egli, da Figlio e nell’unione con il Padre, attraverso lo Spirito Santo, era stato coinvolto in quella opera meravigliosa che più che “lavoro” era appunto l’esplosione epifanica di un incontenibile amore. Ma su questa nostra terra, da figlio di Maria, oltre che dello stesso Padre, Gesù conobbe con il lavoro dell’artigiano anche la sofferenza della fatica, e per giunta quella forma estrema di essa, subentrata con l’imposizione di un patibulum da portare sulle spalle fino al luogo della sua crocifissione.
Paradossalmente da quell’altro pianeta, che era il suo, completamente agli antipodi di quello di un regime inumano quanto oppressivo, poteva dire dalla sponda di un infinito amore, che resisteva e arginava quella sorta di infinito odio che si era avventato contro di lui, e lo diceva nei fatti con quel suo legno trascinato a fatica sulle stradine di Gerusalemme: “Questa mia fatica vi renderà liberi”.
Diceva allora, come poté dire dopo, dall’alto della croce, pur con poche e accennate parole: questo tronco di legno, che si staglia nello spazio ingrigito di un immane dolore, regge il corpo di un uomo che raggiunge ormai il cielo e di un Dio che scende nella più profonda oscurità della terra. Pace è fatta. Quella pace che si realizza non genericamente tra la terra e il cielo, ma tra quell’impronta divina che si era smarrita nell’odio degli uomini e quella tenerezza divina che si era dovuta arrendere alla libertà impazzita dell’uomo.
Da allora in poi il lavoro stesso si può riconciliare con l’uomo e renderlo effettivamente libero. Un lavoro che, per riavvicinare l’uomo a se stesso, deve venire a capo di quella duplice caratterizzazione, che non è venuta mai meno nella nostra storia: di alienazione umana, come fatica che può estraniare e di fatto in molti casi estrania l’uomo da sé, e di lavoro come autorealizzazione che rende sempre più l’uomo ciò che questi deve essere, costruttore di cosmo e realizzatore di storia, artigiano di futuro.
Disoccupazione
Una delle conseguenze molto pratiche di un discorso che potrebbe sembrare astratto tocca il problema oggi davvero enorme, ancor più in Italia e da noi qui al Sud, della mancanza di lavoro ed assume i connotati di una mancanza di possibilità di realizzare se stessi. Come supplirvi? Come uscirne e cosa proporre soprattutto ai giovani privati del lavoro e dunque, come essi giustamente lamentano, del loro futuro? Occorre forse inventare e creare nuove opportunità di lavoro? Ma come? Non sarò certamente io a poter fornire ricette, ma da uomo che ha visto anche nella sua biografia persone che hanno saputo inventarsi forme di artigianato, di intervento a vario livello, nella valorizzazione di quanto avevano, a partire dalle loro tipicità, dal territorio, dalla propria terra, dal proprio ambiente umano, posso solo concludere con un invito. A chi atavicamente non ha lavoro, anche perché il lavoro lo aspetta dagli altri, oggi è richiesto uno sforzo in più… di lavoro come creatività, inventiva e fantasia: guardare più a fondo alle proprie risorse e al proprio ambiente umano, sociale e culturale che sia, e da qui occorre, sembra paradossale ma è possibile e gli esempi non mancano, inventarsi le proprie forme di lavoro. Se ciò accade, si realizza l’intuizione di partenza, sui due versanti ad essa fondamentali: la libertà crea il lavoro e il lavoro rende finalmente e davvero più liberi.