Giovani protagonisti
Ripercorriamo le tappe principali dell’obiezione di coscienza, a colloquio con Massimo Paolicelli.
I veri protagonisti di questi quarant’anni di storia dell’obiezione di coscienza e del servizio civile in Italia sono stati loro, i giovani, in genere sempre vituperati o incompresi dalle precedenti generazioni. Sono loro, infatti, che prima hanno lottato per ottenere un diritto, poi, conquistatolo, hanno semplicemente esercitato tale diritto e, attraverso il servizio civile, cercato di costruire qualcosa di positivo per sé e per gli altri. Certamente i giovani, che quarant’anni fa sceglievano il carcere piuttosto che andare in caserma, sono diversi dai giovani che oggi scelgono il servizio civile. Ma qual è stata l’evoluzione che ha conosciuto il movimento degli obiettori di coscienza?
Giriamo la domanda a Massimo Paolicelli, fondatore e presidente dell’Associazione Obiettori Nonviolenti, obiettore in Caritas nella seconda metà degli anni ’80, protagonista delle battaglie per la riforma della legge 772/72.
“All’inizio, la storia l’hanno fatta i singoli obiettori che individualmente rifiutavano il servizio militare e accettavano di subirne le conseguenze. Poi, man mano, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, hanno capito che mettersi insieme avrebbe portato più successo alla causa: nascono così le ‘dichiarazioni collettive’ che, pubblicamente, venivano lanciate da chi aveva intenzione di rifiutare il servizio militare”. Poi finalmente arrivò la legge. “Si trattò, come è noto, di un compromesso politico voluto dal governo e dai maggiori partiti più per motivi umanitari (scarcerare gli obiettori rinchiusi prima di Natale) che per convinzione. Perché, infatti, la legge era fortemente punitiva: maggiore durata rispetto al militare, obiezione come concessione dello Stato e non diritto, domande esaminate da un ‘tribunale delle coscienze’. E poi c’era il problema più grosso: la gestione del servizio civile in mano al ministero della Difesa”.
Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, il movimento di obiettori che si era creato per ottenere la legge non venne meno, anzi, si rafforzò proprio perché, per usare un termine non proprio nonviolento, la battaglia era stata vinta, ma restava ancora una guerra da combattere. “Non a caso, un mese dopo l’approvazione della legge, il 21 gennaio 1973 nasce la LOC, la Lega Obiettori di Coscienza che nella presidenza annovera persone come Ernesto Balducci, Marco Pannella, Sergio Canestrini, Roberto Cicciomessere, Pietro Pinna. I giudizi su quella legge non erano tutti favorevoli, ma intanto quelle norme costituivano un primo passo. Si capì subito che se ne dovevano fare altri.”
E, infatti, gli anni successivi vedono ancora gli obiettori sulle barricate. “Sì, perché la gestione della legge da parte dei militari mirava a reprimere il fenomeno che, invece, andava aumentando sempre più. Nel 1979, ad esempio, il ministero emanò la famosa ‘circolare dei 26 mesi’ con la quale venivano dispensati tutti gli obiettori che attendevano da oltre 26 mesi di iniziare il servizio. Era evidente una misura per screditare gli obiettori, che così potevano essere additati come i furbi che erano congedati senza aver fatto nemmeno un giorno di servizio. Ebbene, molti obiettori scelsero la strada dell’autodistacco, cioè d’iniziare comunque, trascorsi 6 mesi dalla domanda, il proprio servizio.”.
Non una scelta di comodo, dunque, come invece ormai imponeva il cliché che veniva affibbiato generalmente: obiettore=imboscato. “Non si può negare che casi negativi si siano verificati sia tra chi ha fatto il militare sia tra gli obiettori, ma è impossibile generalizzare. Una delle cose più difficili da spiegare, soprattutto ai militari, era che il servizio fatto da un giovane in caserma per un anno non era affatto paragonabile a quello di un obiettore che per 20 mesi stava accanto a dei malati terminali o a servire in una mensa dei poveri. Ovviamente non era solo una questione di impegno di energie, ma anche e soprattutto di utilità sociale.”
Già, perché accanto alla richiesta di miglioramento delle condizioni degli obiettori c’era tutto un lavoro culturale per fare comprendere le ragioni profonde dell’obiezione. “L’altro aspetto del movimento era appunto di tipo culturale e politico: per una politica di pace, contro le spese militari e le esportazioni di armi, per una difesa popolare e nonviolenta. Forse è stato questo l’elemento di maggiore scontro con i militari. Accanto, cioè, al timore di perdere il controllo sulle generazioni giovanili (che sceglievano sempre di più di non andare in caserma a dire signorsì), quello che i militari temevano era la nostra “ingerenza” nelle questioni della difesa, nella critica al modello di difesa armata e nella proposizione di una difesa alternativa”.
Che sono poi tratti che dovremmo ritrovare anche nell’attuale servizio civile. Ma, secondo te, la storia dell’obiezione di coscienza è finita quando l’Italia ha chiuso con la leva obbligatoria? “Niente affatto. È la stessa legge del 2001 che ricorda come il servizio civile volontario sia una forma di difesa civile e non armata. A me pare che sia un’ulteriore conquista, visto che molti più giovani possono fare esperienza di “servire la patria” e di condividere gli stessi ideali che avevano mosso gli obiettori di ieri. Pensiamo, ad esempio, al fatto che la maggior parte dei serviziocivilisti oggi sia costituita da donne, che per decenni sono stati escluse da questo settore: una vera e propria rivoluzione. Per anni si è discusso sulle motivazioni degli obiettori che, man mano che l’esperienza cresceva, si andavano affievolendo. Io, invece, ritengo che andassero man mano allargandosi, per comprendere, accanto alla componente antimilitarista, anche quella solidaristica”.
Dunque, tutto rose e fiori per l’attuale servizio civile? “Non proprio. A parte l’annosa questione delle risorse economiche e della disparità tra quelle destinate alla difesa armata, tantissime, e quelle, pochissime, investite nel servizio civile nazionale è sotto gli occhi di tutti come il tema della partecipazione dei volontari sia cruciale. Basti vedere quanti volontari hanno partecipato alle ultime elezioni per i propri rappresentanti a livello regionale: solo il 6,7% ha votato e questo la dice lunga su come i giovani si sentano coinvolti in questa esperienza. È un dato sul quale riflettere”.