Tra continuità e rottura
Siamo abituati a pensare il nuovo servizio civile volontario come una pianta innestata su l’obiezione di coscienza, in una linea di continuità praticamente ininterrotta. Eppure, nello specifico, cosa dell’esperienza del servizio civile degli obiettori vediamo chiaramente persistere ancora in quella dei volontari? E cosa, invece, il servizio civile nazionale, a più di 10 anni dalla sua istituzione, ha saputo sviluppare di proprio e di peculiare?
Un primo elemento che di solito viene usato per distinguere le due esperienze è quello della “scelta”: da un lato – si dice – abbiamo l’obbligatorietà del servizio degli obiettori, dall’altro la volontarietà del nuovo servizio civile. Ma la differenza ci pare solo di forma, perché entrambe le esperienze condividono comunque i tratti della “libertà”, anche se declinati con modalità diverse. Infatti, cos’è l’obiezione se non il voler rimarcare l’autonomia e la libertà della propria coscienza rispetto all’obbligo militare? Finita l’epoca della leva, oggi questa libertà è stata esplicitata e si declina nella scelta di un’esperienza che dura un anno, e che mantiene questa libertà come paradigma, tanto da prevedere le forme della rinuncia e dell’abbandono.
Ci sembra una distinzione più sostanziale, invece, l’approccio diverso che i giovani hanno maturato alla scelta del servizio civile nazionale, come evidenziato da molte ricerche apparse in questi anni. Chi ha vissuto il servizio civile da obiettore ricorda, infatti, come a questa opzione si arrivasse, nella maggior parte dei casi, sulla scia di una motivazione che nasceva già forte e che veniva messa alla prova dalle lungaggini di un sistema militare, che faceva di tutto per mettere i bastoni fra le ruote: la domanda presentata in caserma e il famoso colloquio con i carabinieri, i tanti mesi di attesa, l’incognita dell’assegnazione della sede di servizio, la trafila dei primi giorni e le modalità di servizio mutuate dal mondo militare. Oggi per i giovani l’accento è sull’esperienza, sulla voglia di mettersi alla prova, oltre che su quella di rendersi utili agli altri. In questo senso il bando annuale, le selezioni e i colloqui, le figure specifiche negli enti, per non parlare delle attività rigorosamente previste nel progetto e un compenso più alto, rendono il servizio civile nazionale più vicino ai diritti del mondo del lavoro che non agli obblighi di quello della “naja”. È attraverso la totalità dell’esperienza che si maturano alla fine convinzioni e nuovi atteggiamenti. In fondo, quando ricordiamo che il “servizio civile è un’esperienza educativa” e che “cambia la vita”, non facciamo altro che sottolinea-re il valore di un percorso formativo che dura un anno e i cui frutti si apprezzano solo alla fine.
Proprio l’esplicitazione della dimensione formativa può essere indicata come uno degli altri elementi peculiari della nuova esperienza. Nel percorso formativo attuale ha trovato fin dall’inizio una sua formalizzazione, anche nella durata (dalle 80 alle 150 ore annue), mettendo al centro in maniera sistematica i contenuti essenziali di questa esperienza (pace, nonviolenza, cittadinanza attiva, ecc…) insieme alle caratteristiche proprie di ogni progetto.
Paradossale pare, invece, l’aspetto della rappresentanza dei giovani volontari, una volta totalmente autogestita, ora istituzionalizzata tanto da arrivare a vere e proprie elezioni annuali. Ma, nonostante questo, sembra quasi aver perso di carica propulsiva, come dimostrano i dati dell’affluenza alle elezioni, sempre bassissimi.
E un altro paradosso del nuovo servizio civile è che, pure essendo formalmente più “libero”, invece che diventare “popolare”, nel corso di questi anni è diventato esperienza di élite, a disposizione di chi, per studi o esperienze pregresse, ha i titoli per farsi selezionare. I tagli ai finanziamenti che ne hanno ridotto progressivamente i posti a disposizione, mentre la richiesta dei giovani rimaneva sempre invariata, e le selezioni degli enti, basate su colloqui e titoli certificabili, hanno di fatto “filtrato” progressivamente i giovani più istruiti e dotati di possibilità, limitando l’accesso degli altri. L’“innesto” sembra ormai aver preso una sua fisionomia, eppure la linfa che lo alimenta arriva ancora dalle radici ben piantate nella storia dell’obiezione. Finché il legame rimarrà, crediamo che i frutti si vedranno ancora.