Io obietto!
“Se, per ipotesi, centomila giovani si dichiarassero obiettori di coscienza, metterebbero evidentemente in crisi il servizio di leva e le strutture militari del nostro Paese…”. Nessuno avrebbe potuto prevedere che le profetiche parole pronunciate la mattina del 14 dicembre 1972 da un membro della Commissione Difesa della Camera dei deputati (l’on. Pino Rauti, recentemente scomparso) si sarebbero avverate poco meno di trent’anni dopo. Quel giorno veniva approvata la legge che, per la prima volta in Italia, riconosceva la possibilità di obiettare al servizio militare obbligatorio e che il giorno dopo sarebbe stata promulgata, permettendo così a circa 200 obiettori di uscire dal carcere. La decisione, presa nel 2000 dal nostro Parlamento, di sospendere la leva obbligatoria a partire dal 2005 venne giustificata dall’evolversi strategico e tecnologico del modello di difesa del nostro Paese (simile a quello di altri Stati europei che avevano già preso la stessa decisione), ma certamente un elemento sottaciuto che pesò in quella scelta fu la crescita quantitativa dell’obiezione al militare che aveva messo in crisi la leva.
Numeri
Le cifre parlano chiaro e mostrano un trend sempre in costante crescita. Nel 1973 (primo anno di applicazione della legge) furono 200 le domande di obiezione presentate; dieci anni dopo, nel 1983, erano già 7.557 e diventeranno 28.910 nel 1993 per raggiungere sei anni dopo la cifra record di più di 108.000 richieste, sancendo il “sorpasso” dei giovani obiettori sui loro coetanei in divisa. Quello che nei primi anni veniva definito un “fenomeno” poco a poco diventò un comportamento di massa: i giovani italiani preferivano decisamente il servizio civile al servizio militare. Un elemento, questo, non trascurabile per chi voglia analizzare l’evoluzione del mondo giovanile nel nostro Paese.
Ma a crescere, in questi quarant’anni, non è stato solo il numero di obiettori. Parallelamente è cresciuto il numero di quei soggetti, pubblici e privati, che hanno accolto quegli obiettori e ne hanno valorizzato le capacità consentendo loro di svolgere un servizio a favore della Patria, cioè della comunità. I 15 enti convenzionati del 1974 (primo dato disponibile) erano diventati 5.923 nel 2001, l’anno in cui nasceva il servizio civile su base volontaria. Un mondo, quello degli enti di servizio civile, che è cresciuto insieme alla galassia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo e del terzo settore: una rete che ha fatto della solidarietà, del riconoscimento e dell’esercizio dei diritti fondamentali, della partecipazione responsabile e attiva alla costruzione del bene comune il tratto fondamentale del proprio agire, anche attraverso l’offerta del servizio civile intesa come scelta educativa.
Se questi due attori, obiettori ed enti, hanno giocato il loro ruolo nel senso della crescita quantitativa e qualitativa di questo settore, seppur con luci e ombre, non altrettanto si può dire del terzo attore, lo Stato. Dal punto di vista normativo, obiezione e servizio civile hanno dovuto sopportare per 26 anni (prima cioè che venisse riformata la legge del ’72) la debolezza intrinseca di una legislazione fatta più per punire obiettori ed enti che per sviluppare un sano rapporto tra questi e la “Patria”. A ciò si aggiunga che a remare contro obiettori ed enti ci s’è messa anche l’amministrazione pubblica (cioè il ministero della Difesa, sia a livello centrale che periferico), che ha interpretato il proprio ruolo più come parte avversa che come partner, al “servizio dei cittadini” come si direbbe oggi. È per questo che ripensando a questi quarant’anni, i termini che più vengono in mente non sono affatto pacifici: “lotta”, “battaglia”, “opposizione”… Inoltre, tutto ciò ha alimentato quella cultura del sospetto che ha colpito chi obiettava, e chi accoglieva chi obiettava, solo perché proponevano un modello alternativo di difesa e di costruzione della pace, una concezione diversa delle relazioni tra singoli, gruppi e popoli.
Nuova cultura?
L’essere stati, obiettori ed enti, un “segno di contraddizione” per la società, quanto ha pagato in termini di crescita della cultura della pace? Di quanto è aumentato, o diminuito, in questi quarant’anni di obiezione di coscienza e servizio civile lo “spread” tra una concezione della pace basata sulle armi e sugli eserciti e una concezione alternativa di gestione e risoluzione dei conflitti? A giudicare dalle condizioni in cui versa oggi il servizio civile (c’è chi parla di “coma” e chi lo dà già per morto), si deve purtroppo constatare come la cultura della nonviolenza sia ancora appannaggio di una minoranza e che non sia riuscita a convincere il decisore politico che è meglio (per tutto il Paese) investire sul servizio civile dei giovani che acquistare uno stormo di cacciabombardieri F35. Ma si sa che, come diceva don Tonino Bello, “la pace, prima che traguardo, è cammino. E, per giunta, cammino in salita”.
Soprattutto quello che stenta ancora a essere accettata culturalmente è l’idea, divenuta assunto normativo sin dal 1985, che la pace si può costruire con le armi o senza di esse e che entrambe le modalità hanno pari dignità, almeno di fronte alla legge. Insomma, l’equazione difesa=armi non è ineluttabile e così come ci si addestra a fare la guerra così si può (si deve!) imparare a costruire la pace senza fare ricorso alle armi. Era l’idea che spingeva ieri tanti giovani a obiettare al militare e che oggi dovrebbe sottendere alla scelta volontaria di aderire al servizio civile, che di questa storia quarantennale è parte integrante.
Forse è proprio recuperando questa mission fondamentale che l’attuale servizio civile può uscire dalla crisi d’identità che oggi lo attanaglia, tra chi lo considera una “politica giovanile” insieme alle tante (poche, in verità), chi lo interpreta in senso welfaristico, come una stampella a un sistema di garanzie che vengono meno, e chi lo considera una delle forme istituzionalizzate del precariato.
Se è vero che la carica ideologica che l’obiezione portava con sé non c’è più, è altrettanto vero che gli obiettori non dicevano “no” solo all’“uso personale delle armi” (come recitava il primo articolo della legge del 1972) ma a un intero sistema fondato sulla violenza e l’ingiustizia e il loro “sì” si esprimeva attraverso il servizio civile, come tentativo di ricostruire legami spezzati e costruirne di nuovi. La questione ineludibile che oggi il servizio civile deve porsi è se i motivi che stavano dietro a quel “no” e a quel “sì” siano ancora validi e se possono ancora ispirare le azioni di tanti ragazzi e ragazze.
I Vescovi italiani, ad esempio, hanno indicato in questo decennio il servizio civile tra i “percorsi buoni” da seguire nelle nostre comunità, in risposta alla necessità di educare alla cittadinanza responsabile. Speriamo che anche fuori della Chiesa ci si convinca dell’importanza del servizio civile quale strumento di crescita del nostro Paese.