Il flop della cooperazione
Dal mercato degli aiuti a una nuova solidarietà militante.
Lo scorso ottobre si è svolto a Milano il Forum della Cooperazione Internazionale. Il fatto che il governo avesse organizzato un evento di alto profilo su un tema bistrattato da anni, quale quello della cooperazione allo sviluppo, è stato accolto da tanti come un segnale importante, di discontinuità rispetto al passato. Per questo quasi l’intero mondo della società civile, che tradizionalmente ha trainato l’agenda dell’aiuto allo sviluppo, ha partecipato in blocco all’happening, fatte salve poche eccezioni. Alla vigilia ha, infatti, tenuto banco la polemica su come l’evento fosse sponsorizzato da tre grandi attori profit, quali Banca Intesa, Microsoft e l’Eni. Soprattutto la presenza dell’Eni è stata vista come ingombrante e ipocrita, dal momento che la multinazionale energetica italiana è finita in varie occasioni nell’occhio del ciclone per le sue attività a elevato impatto ambientale e sociale, nonché talvolta macchiate di corruzione, nei Paesi in Via di Sviluppo.
La controversia sulle sponsorizzazioni sarebbe stata sufficiente per non partecipare allo show di Milano, ma in realtà vale anche la pena soffermarsi sulla gravità della proposta di trasformazione della cooperazione allo sviluppo in Italia ed Europa.
Al Forum si è assistito allo sdoganamento del settore privato profit come attore centrale della nuova cooperazione allo sviluppo. Quasi fosse una novità, poi.
Una storia tutta italiana
La storia di tangentopoli in Italia nel capitolo sulla cooperazione la dice lunga al riguardo. Gran parte degli appalti gestiti dalla cooperazione internazionale sono nelle mani del settore privato, nonché quote sempre più ampie della finanza allo sviluppo, soprattutto a livello multilaterale – come nel caso della Banca Mondiale o della Banca Europea per gli investimenti – consistono in prestiti diretti al settore privato. In questo modo le aziende propongono i propri progetti e cercano i necessari finanziamenti spesso fuori dalle stesse strategie di sviluppo concordate tra i governi dei Paesi in Via di Sviluppo e le istituzioni internazionali.
Per 16 anni la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, esperienza da cui è nata Re:Common all’inizio di quest’anno, si è occupata di finanza per lo sviluppo, cercando di svelare i meccanismi attraverso i quali, dietro gli aiuti, altro non si celasse che un sistema post-coloniale per continuare a depredare le risorse naturali dei Paesi del Sud, a garantire i profitti delle multinazionali occidentali, a rafforzare la sudditanza politica dei Paesi impoveriti nei confronti di quelli ricchi. Gli strumenti utilizzati per assicurarsi questi obiettivi sono noti: la trappola del debito, le condizionalità economiche per aprire i mercati nazionali al business occidentale, gli aggiustamenti strutturali di stampo liberista, l’aiuto legato – ossia la destinazione di gran parte degli aiuti a imprese dello stesso Paese donatore. La narrativa che ha consentito di calmierare le critiche e non percepirci come avidi sfruttatori è stata proprio la retorica dello sviluppo.
I concetti di “aiuto”, “cooperazione” e “sviluppo” hanno permesso di elevare un meccanismo di sfruttamento e sottomissione al livello dell’etica filantropica. Mentre prendevamo risorse dai Paesi del Sud per garantire il nostro insostenibile stile di vita, lo facevamo a fin di bene, con lo scopo di ridurre la povertà. Questo meccanismo si è, a sua volta, smascherato da solo proprio quando, con la grave crisi che sta tormentando anche le economie “avanzate”, ogni impegno per l’aiuto allo sviluppo è definitivamente saltato, a fronte di un atteggiamento più aggressivo e palese di accaparramento delle risorse naturali nel Sud globale.
La cooperazione targata “società civile” è rimasta intrappolata in questo meccanismo e, pur gestendo le briciole del portfolio dell’aiuto pubblico allo sviluppo, ne ha garantito la legittimità e continua a farlo con iniziative come quella del Forum Cooperazione di Milano.
Una domanda cruciale
A questo punto della storia della cooperazione è giusto uscire dai soliti schemi e porsi la domanda molto più netta se il dramma dello sviluppo è ancora riducibile a una questione di fondi da incanalare verso i poveri in varie forme, o se invece richiede ben altre strategie.
Viviamo in un mondo in cui il problema non è la mancanza di risorse finanziarie o di ricchezza. La crisi è dovuta proprio alla grande ricchezza privata accumulata in poche mani che volteggia sull’economia e sulla società alla ricerca di ritorni sempre più alti sugli investimenti, pur in mancanza di asset abbastanza profittevoli sui cui planare per estrarre profitto. Perciò la risposta al problema non è tanto quella di pompare ulteriori risorse, o liquidità come si suol dire, ma di incanalare quella esistente per finanziare interventi per l’interesse generale e il bene comune. Per questo motivo, è giusto dubitare alla radice della “nuova” cooperazione, che vede la leva sul settore privato come un modo per generare più risorse per gli aiuti, quando in realtà chi investe vuole profitti e non la distribuzione della ricchezza a favore dei poveri.
Tornando alla dinamica Nord-Sud, i dati sono noti da tempo e sono implacabili: per ogni dollaro che il Sud riceve in aiuto pubblico allo sviluppo, 10 dollari seguono il percorso inverso, tornando a Nord, tramite l’utilizzo di sofisticati trucchi finanziari, la realizzazione di progetti tanto faraonici quanto inutili, i sussidi più o meno mascherati alle nostre imprese e l’utilizzo sistematico e sfrontato dei paradisi fiscali. Un flusso finanziario inverso che da solo supera la somma degli aiuti allo sviluppo e degli investimenti diretti esteri. Una vera e propria fuga di capitali, che va a pesare negativamente sui bilanci pubblici dei Paesi poveri, e che da un lato aumenta il loro debito estero, e dall’altro smantella la capacità dei governi locali di assicurare la fornitura di beni e servizi.
Da molti anni pensatori e attivisti del Sud come del Nord del mondo hanno iniziato a denunciare come la dipendenza dagli aiuti non sia un danno collaterale a un sistema altrimenti virtuoso, quanto piuttosto un obiettivo alla base di esso, e che dietro il paradigma sviluppista e ai suoi protagonisti ci sia proprio l’interesse primario di imporre un modello unidirezionale e asimmetrico mirato al consolidamento delle tradizionali relazioni di potere. Per questo oggi è necessario porsi la domanda provocatoria se la sospensione degli aiuti allo sviluppo non sia una scelta più giusta a favore dei poveri.
La privatizzazione dello sviluppo
Sviando sulla questione della “privatizzazione dello sviluppo”, una parte della società civile e dei governi ha cercato di rispondere alla critica sull’inefficacia dell’aiuto con un’agenda tecnocratica centrata sull’efficienza, come se il problema fosse soltanto lo strumento usato e non il fine politico con cui questo viene brandito dai Paesi cosiddetti “donatori”, vecchi o nuovi che siano.
Poi l’attenzione si è concentrata sulle sfide poste al sistema degli aiuti così come alle economie avanzate nel loro complesso dai cosiddetti “nuovi donatori”, quali in particolare i governi delle economie emergenti.
Ma anche in questo caso, la lettura è molto parziale e di convenienza. Dietro il visibile e progressivo spostamento di potere e ricchezza verso oriente, sta emergendo un nuovo ordine mondiale guidato da una vera e propria oligarchia finanziaria globale, dove la dipendenza del pubblico dalla finanza e dal privato è elevata al punto da cancellare il confine tra le due categorie. Un ulteriore stadio del liberismo, che è giusto chiamare finanziarizzazione non solo dell’economia ma dell’intera società.
Di fronte a un tale contesto internazionale, è obbligatorio chiedersi che cosa significhi oggi solidarietà e cooperazione, quando ampi strati della popolazione dei Paesi cosiddetti ricchi stanno progressivamente finendo in povertà. Che cosa significhi andare oltre le categorie di Nord e di Sud e promuovere un’azione per la giustizia sociale, ambientale ed economica che funzioni ovunque, in Grecia come in Africa sub-Sahariana.
Allo stesso tempo, nonostante il mondo e i rapporti di forza stiano rapidamente cambiando, rimane palese che il Nord ha maturato un enorme debito economico, ecologico e sociale nei confronti del Sud. Un debito che deve essere ripagato e ciò potrebbe avvenire con degli strumenti non necessariamente incentrati sul trasferimento di risorse finanziarie. Ecco solo alcuni dei possibili esempi: contrasto globale dell’elusione fiscale, rilascio della proprietà intellettuale su tecnologie fondamentali, controllo stringente degli standard sociali e ambientali delle imprese, trasformazione del sistema monetario internazionale. Tutti gesti che rappresenterebbero un “nuovo inizio”, verso una “nuova cooperazione e solidarietà internazionale”.