La piuma e il peso
Immagino che il 30 novembre Arturo Paoli si sia svegliato come sempre, ossia cantando. Più felice del solito, certo, perché varcare la soglia dei cent’anni è come piantare una tenda sulla cima di un monte altissimo. Arturo ci è arrivato leggero. Si è liberato della paura, si è liberato dall’angoscia e dall’ossessione di dire tutto, di sapere tutto, anche di professare una verità onnicomprensiva. Non è stato semplice. Nella nostra società dei consumi è molto più facile appesantirsi che alleggerirsi. I pesi schiacciano, tirano verso il basso, isolano. Uccidono anzitempo. Mirabile e al tempo stesso drammatica è l’analisi di Carlo Michelstaedter, giovane pensatore goriziano autore de La persuasione e la rettorica, tesi di laurea diventata ben presto un capolavoro filosofico e letterario: “Il peso – scrive – è a se stesso impedimento a posseder la sua vita, e non dipende più da altro che da se stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso”. Schiacciato dal peso Carlo Michelstaedter non poté far altro che soccombere, suicida, a 23 anni.
Persuaso del nulla
Arturo si è persuaso del nulla, del vuoto, dell’assenza. Alla gravità del peso ha sostituito la soavità di un sorriso: “L’essere non conosce il suo valore – scrive Luigi Zoja nella prefazione all’ultimo libro di Arturo La pazienza del nulla – finché non fronteggia il nulla: la possibilità di non esistere”.
Vivere il nulla è un po’ come volare. Tutto ciò che è materia si riduce all’essenza. Perfino il corpo si ridimensiona. Non è il trionfo dell’estetica, ma è la sobrietà di un bisogno vissuto nella radicalità. Anche il linguaggio si fa misurato. Nessuna voce può dire una verità sul mistero del vivere. Niente può dire il Nulla. Dio è. Si sente nel vento, si percepisce nell’atto del nascere e del morire. Tutte le immagini tratte dalla mediazione teologica non sono che arnesi culturali costruiti per ipotesi ideologiche e religiose. Il nulla è l’ultimo approdo di un lungo e tortuoso cammino di liberazione. Arturo ci è finito nel mezzo. Vi è stato come trascinato dagli eventi dolorosi e traumatici della storia.
Libero
La prima liberazione fu dalla violenza. Era il 1920. A otto anni vide l’odio politico che bolliva nel cuore ideologico del fascismo. Assistette agli spari durante un comizio socialista nella piazza principale di Lucca. Vide i morti e pensò alla cattiveria umana.
La seconda liberazione fu dalle consuetudini di una vita ordinaria. Nel 1937, forse anche per effetto di quell’immagine di violenza e di terrore, decise di entrare in seminario per farsi prete (1940).
La terza fu la liberazione storica per fermare l’uragano nazifascista e ripristinare la democrazia, una lotta straordinaria che ha unito milioni di giovani, operai, intellettuali, politici, sindacalisti, uomini e donne comuni di tutta l’Europa. Arturo fece da cerniera di un’organizzazione per l’aiuto e l’assistenza degli ebrei in fuga. Un giorno rischiò la vita nascondendo un giovane ebreo, Zvi Yacov Gerstel, venuto a bussare, insieme alla moglie incinta, alla porta del seminario degli Oblati. “Quel giorno me lo ricordo bene” racconta Paoli. “I tedeschi bussarono alla porta chiedendo di poter entrare per cercare un ebreo in fuga. Entrarono nel seminario e iniziarono a rovistare da tutte le parti (...) Non sapendo che fare lo tirai all’interno verso una porticina che dava in un piccolo ripostiglio (...). Il giovane si è ricordato di una frase che io avrei detto in quel momento: ‘Non avere paura perché io ti proteggerò con il mio sangue’”. Quel giovane, diventato un insigne studioso del Talmud, si portò dentro quella frase per molti anni, finché nel 1999 lo stato di Israele prese la decisione di incidere nella pietra dello Yad Vashem il nome di Arturo Paoli giusto fra le nazioni.
Nel 1954 ci fu la liberazione dal ruolo. Fu il periodo forse più doloroso nella vita di Arturo, allora assistente nazionale della Gioventù italiana di Azione Cattolica. Prima venne defenestrato Carlo Carretto, poi toccò a lui. Entrambi si schierarono contro la decisione del presidente Luigi Gedda di muovere le leve del consenso politico attraverso i comitati civici, uno strumento sostenuto dalla Santa Sede per impedire a socialisti e comunisti di imporre il proprio peso politico nella tornata elettorale. I comitati civici erano stati pensati apposta per raccogliere le forze del mondo cattolico facendole convogliare in una alleanza con i monarchici e i neofascisti. Scoppiò una polemica durissima e Paoli dovette ritirarsi per alcuni mesi in attesa di sapere da dove ripartire.
Pochi mesi dopo ci fu la liberazione della patria e l’invito a svolgere il ruolo di cappellano sui transatlantici in rotta verso l’Argentina. Paoli divenne davvero l’uomo cosmico di cui parlò una sua insegnante ai tempi dell’università.
In uno di questi viaggi incontrò la sua vocazione, quella dei Piccoli Fratelli di Gesù, congregazione che si rifà al padre Charles de Foucauld. Fu il fratello Jean Saphores a rendergli dolce la traversata raccontandogli i carismi di quella fraternità di oranti in mezzo ad altri oranti.
E fu così che avvenne la liberazione dal chiasso, dalle chiacchiere, dai rumori della vita sociale. Nel 1955 venne destinato per il noviziato a Orano, nel deserto algerino. “La grande virtù del deserto è quella di spogliarti, di farti morire al passato e farti rinascere...”. È una liberazione totale.
Anni dopo Arturo scrisse il libro più intenso, più vero: Dialogo della liberazione – ristampato e integrato pochi mesi fa dall’editore Aragno – che anticipa molti temi rielaborati in maniera più organica e strutturata da Gustavo Gutierrez e Leonardo Boff per quel grande progetto teologico che va sotto il nome di teologia della liberazione. Sono gli anni in cui Arturo coordina dall’Argentina la confraternita sparsa nell’America Latina. Anni durissimi, spietati, anni di dittature sanguinarie. In Argentina i piccoli fratelli sono nel mirino. Arturo scopre di essere inserito come secondo nella lista dei condannati a morte, subito dietro il vescovo Angelelli, che verrà assassinato nel 1976. Viene addirittura accusato di essere il tramite di un losco traffico di armi. Alcuni fratelli affogano nel mare impietoso dei desaparecidos. Arturo è costretto a scappare. Si rifugia in Venezuela. Di lì poi passa in Brasile a Foz de Iguaçù. Fonda cooperative, coordina progetti, condivide la lotta dei poveri e dei favelados, dei sem terra.
Torna definitivamente a Lucca solo nel 2006, a 94 anni.
L’ultima liberazione è dalla morte. Anche quel peso svanisce. Arturo oramai è una piuma. Vive. Canta. Loda il Signore. Si muove con il passo di danza. Non sente la fatica di stare curvo in avanti e nemmeno la stanchezza di leggere, studiare, scrivere e tenere ancora lezioni e incontri oltreché dire ogni domenica la messa: “La vecchiaia – afferma – è il tempo più bello della mia vita, il tempo della leggerezza, del superamento della fatica, il tempo delle gioie quotidiane e della luce che scende dal cielo con l’alba a portare la vita sulla terra e a spezzare gli steccati fra gli uomini e i popoli. Di tutte le cose che mi possono angustiare, quella che mi preoccupa di meno è la morte, perché la morte arriva senza avvertire. E allora vivo con la mia lentezza la gioia di un’alba che sa di infinito”.
A settembre sono salito a trovarlo, nella sua casa di San Martino in Vignale, insieme alla filosofa ungherese Àgnes Heller, che spesso ritorna nei libri di Arturo come un punto di riferimento per la teoria dei bisogni radicali dell’uomo. Parlando del sorriso di Arturo ho provato a chiederle come è possibile che ci siano uomini così sereni nell’affrontare la vita e la morte, mentre altri se ne stanno rintanati nel guscio trafitti dalle paure per il futuro e angustiati dal passato che non tornerà più. Mi ha risposto così: “Penso che sia soltanto una questione di occhi. Dipende se hai occhi ottimisti o pessimisti. (...) L’uomo dagli occhi ottimisti ti racconterà una bella storia, piena di passione e di entusiasmo, una storia di ideali e di vita. L’uomo dagli occhi pessimisti, invece, ci dirà che è stato tutto un disastro, un cataclisma, un’ecatombe, che la vita ha il volto di una morte annunciata. Hanno visto le stesse cose, hanno vissuto gli stessi eventi. Eppure gli occhi hanno osservato due mondi diversi, uno pieno di speranza, l’altro gravido di angoscia”. Siamo da capo: la piuma e il peso.