Nel Deserto di Dio
Le attività della criminalità organizzata sono sempre insopportabili alla coscienza. Diventano spregevoli, esecrabili e ripugnanti quando si accaniscono su vittime deboli e inconsapevoli. Spesso si tratta di donne e bambini. Spesso sono volti e nomi anonimi perché ignorati dal circo della grande informazione. È il caso del traffico di esseri umani nel deserto del Sinai, detto Deserto di Dio. Uomini senza scrupoli (nomadi Rashaida e predoni beduini) organizzano l’esodo della speranza di giovani eritrei che fuggono dal loro Paese per sottrarsi a quella sorta di servizio militare a vita cui li costringe la dittatura. Il punto di partenza successivo è il campo profughi di Shagarab in Sudan dove si calcola che arrivino circa 2.000 giovani profughi eritrei al mese. Poi i profughi passano di mano in mano tra bande criminali che ne fanno un’accurata cernita. Tutti sequestrati. Alle loro famiglie viene richiesto un riscatto e quelli che non possono pagare diventano “merce pregiata” per il traffico di organi che vede la propria regia in Egitto. Tutto coperto da complicità e corruzione. Medici specialisti e autorità, latitanza della stampa e della comunità internazionale, complicità di militari e funzionari eritrei, sudanesi ed egiziani. Secondo le scarne notizie dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, i proventi di questo lucroso e spaventoso traffico, finiscono in anonimi conti svizzeri e fanno capo a organizzazioni criminali mondiali. Non è affare soltanto di beduini. A denunciare l’orrore che si consuma nel Deserto di Dio le solite poche organizzazioni per i diritti umani.