Quella preghiera sul confine

31 marzo 2014 - Tonio Dell'Olio

"Il confine tra gli Stati Uniti e il Messico è la nostra Lampedusa", ha dichiarato monsignor Eusebio Elizondo, vescovo ausiliare di Seattle e presidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. E per questa ragione, sulle orme del pellegrinaggio di Papa Francesco nell'isola Porta d'Europa, anche i vescovi statunitensi si riuniranno domani a Nogales in Arizona per celebrare una messa in ricordo dei circa 6000 immigrati che dal 1998 ad oggi hanno perso la vita nel deserto che si trova al di là muro eretto dall'amministrazione USA al confine con il Messico. Un gesto, un segno, un grido lanciato da una città simbolo. Perché Nogales non è che una delle tante città di confine attraversate dai mendicanti della speranza, dai cercatori di dignità, dalle vittime dei coyotes (trafficanti di esseri umani). Il destino di Nogales è segnato. Per metà si trova in Arizona e per l'altra metà nello stato di Sonora in Messico. Una messa anche per i troppi migranti che cadono nelle maglie della criminalità organizzata e sono sottoposti a torture, stupri, ricatti, estorsioni. Fino a diventare pezzi di ricambio per il traffico di organi commissionati da cliniche al di sopra di ogni sospetto. Forse a noi questa notizia non arriverà nemmeno in una nota a margine dei quotidiani, ma spero che, almeno in Messico e negli Stati Uniti, il grido di quella preghiera si alzi come una denuncia. Voce di chi non ha voce.  

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