Quale scomunica?
La scomunica ai danni dei mafiosi si pone tra autoesclusione e misericordia. Da una parte, la scelta degli esponenti dei clan malavitosi di adorare nei fatti un altro dio che nulla ha a che vedere con il Dio di Gesù Cristo e, dall’altra parte, la disponibilità della comunità cristiana ad accompagnare tutte le persone in un cammino di pentimento e di una seria, sincera e profonda revisione di vita. Insomma di chiamare a conversione. Si tratta di un percorso che non ammette sconti di pena, di un cammino che non lascia spazio all’opportunismo. La giustizia (quella terrena) deve compiere il suo corso. Si tratta, cioè, di fare i conti con la propria coscienza, di riconciliarsi con la vita, di tornare a guardarsi allo specchio senza provare schifo. Il messaggio dei detenuti che in carcere fanno lo “sciopero” della Messa – ha ragione Saviano – non è solo una chiara presa di distanza dalla sfida lanciata da papa Francesco, ma un ulteriore segnale di fedeltà all’organizzazione di cui fanno parte. Un modo per dire che non si lasciano scalfire da quella che i giornali enfatizzano come “scomunica”. In ogni caso, si tratta di una pagina nuova, le cui conseguenze vanno valutate nel tempo e non sulla spinta mediatica ed emotiva immediata. Peraltro, l’espulsione della gente dei clan deve essere molto più ampia e completa e deve avvenire in seno alla società e non solo da parte della Chiesa, che pure deve fare la sua parte. Complicità, contiguità, cointeressi, convenienze, corruzione, connivenze, indifferenza, omertà, silenzi… sono prassi che devono scomparire dalla grammatica della politica, dell’economia, dell’informazione e di tutti. Questo sì fa male ai clan! Ma questo richiede a ciascuno di fare la propria parte e non solo agli affiliati.