La Pasqua di San Salvador
La Pasqua di San Salvador ha colori e significati molto nitidi. Sono quelli di una folla colorata, con cui alle sette della mattina, del 24 marzo scorso, ci siamo ritrovati all’hospitalito, per celebrare l’Eucaristia, nello stesso luogo in cui, 35 anni prima, Mons. Romero fu ucciso da un sicario delle famiglie potenti, con l’illusione di mettere a tacere una voce profetica. Ma la profezia non muore sotto i colpi di un’arma da fuoco! Lo dice quella gente stipata all’inverosimile che scandisce, con gli applausi, l’omelia di Raul Vera Lopez, vescovo di Saltillo in Messico: “Romero aveva detto che se ucciso, sarebbe risuscitato nel suo popolo. Oggi sappiamo che resuscita nel mondo intero”. Accanto a me un vescovo della Chiesa anglicana, poco distante una donna in clerigman della Chiesa episcopaliana e, poi, tanti campesinos, sacerdoti, donne, bambini… Ad animare la messa, con chitarre e tamburi, i ragazzi e le ragazze della chiesa di San Francisco de Asis, del quartiere Mexicano, tra i più segnati dal degrado urbano, impastato di violenza e di povertà… e di voglia di rinascere. Una festa di popolo, molto distante dalle liturgie composte e precise cui siamo tristemente abituati. Che sia Pasqua lo dice anche la presenza del presidente della Repubblica. Non sarebbe stato pensabile fino a qualche anno fa. Segno di un mondo che cambia. Sia pure col suo carico delle circa 80.000 morti negli anni della feroce repressione. Ma oggi è diverso. È Pasqua, appunto.