La mafia della palma africana
Rigoberto Lima Choc, 28 anni, era un professore guatemalteco dello Stato del Petèn. Aveva a cuore le sorti della sua comunità e per questo si era candidato ed era stato eletto come consigliere dell’amministrazione della sua città Sayaxché. Era un leader, Rigoberto, soprattutto per il movimento di protesta contro le multinazionali che hanno imposto in quella regione come in molte altre aree dell’America Latina, coltivazioni intensive di palma africana da cui si ricava biocombustibile. Rigoberto protestava perché i pesticidi utilizzati in quelle vaste aree avevano inquinato il fiume La Pasion causando la morte di migliaia di pesci e avevano compromesso tanto la sovranità alimentare quanto l’ecosistema. L’apposita agenzia delle Nazioni Unite, dopo una missione nella regione, aveva stilato un rapporto in cui si parlava di disastro ecologico, un vero e proprio ecocidio. Venerdì scorso (18 settembre) Rigoberto è stato ucciso a colpi di pistola da due sicari mentre si trovava fuori dal tribunale che il giorno prima aveva decretato di fermare la coltivazione della palma per sei mesi e poter determinare le responsabilità dell’inquinamento. Una sconfitta per le multinazionali della “green economy”. Chi ancora pensa che la mafia sia questione esclusiva di cartelli e clan familiari, deve fare i conti con quanto avviene tragicamente nel silenzio più completo in luoghi che ai più appaiono sperduti e sconosciuti. Per questo non dobbiamo dimenticare Rigoberto Lima Choc e nemmeno Lorenzo Pérez, Manuel Herrera e Hermelindo Asij, altri attivisti ambientali che nel frattempo sono scomparsi dopo essere stati sequestrati sempre in Guatemala.