Da Parigi in poi
La Conferenza delle parti sui Mutamenti Climatici di Parigi ha prodotto – dopo anni di intensi negoziati – un accordo che dovrà governare dal 2020 in poi le politiche sui cambiamenti climatici. Un esito che ha generato reazioni assai diverse e riconfermato il divario di prospettiva tra chi vorrebbe vedere il classico bicchiere mezzo pieno e chi ritiene che le soluzioni previste non assicurino un cambio di rotta nel modello di sviluppo energivoro e dipendente dai combustibili fossili. Mai come prima è risultata evidente la divergenza tra la narrazione “mainstream” dei cambiamenti climatici e quella che prendeva forma e sostanza all’esterno, tra le strade, nella partecipazione attiva di persone movimenti e associazioni di ogni parte del mondo che a Parigi hanno costruito una prospettiva altra di giustizia ecologica e sociale.
Letto attraverso questa chiave l’accordo di Parigi conferma l’urgenza di intraprendere un percorso di conversione ecologica dell’economia “dal basso” e di costruire alleanze trasversali tra chi resiste all’avanzamento delle frontiere estrattive, chi pratica alternative e chi prova a mettere in campo tecnologie pulite e a basso impatto. Parigi ci consegna un compito che non può esaurirsi nel lavoro di verifica dell’attuazione degli impegni presi da parte dei governi, ma prefigura la costruzione di un nuovo movimento globale che sappia coniugare pace, altraeconomia, diritti e giustizia ecologica e climatica. Uno dei temi più controversi nel negoziato di Parigi riguardava non a caso la relazione tra clima e diritti umani. Il tema forse più “politico” dell’accordo, visto che prevedeva il vincolo di rispettare condizioni quali equità, responsabilità comuni e differenziate, dimensioni di genere, rispetto dei diritti umani, e dei popoli indigeni.
Nel negoziato ufficiale il risultato è stato assai deludente. Ma all’esterno il Tribunale internazionale per i diritti della terra ha visto le testimonianze di comunità locali, leader indigeni e attivisti di ogni parte del mondo, sugli effetti devastanti di progetti di estrazione petrolifera, fracking, miniere a cielo aperto, un debito ecologico che travalica i confini tradizionali tra Nord e Sud e accomuna comunità in resistenza in ogni parte del pianeta.
Giustizia climatica
Il Tribunale ha emesso una dura sentenza di condanna a governi e imprese e ascoltato proposte quali quella di inserire nel Trattato di Roma sulla Corte Penale Internazionale il crimine di ecocidio. Nuove categorie e nuove parole d’ordine sono state messe a punto per costruire una cornice di riferimento dei movimenti per la giustizia climatica, concetti quali debito ecologico e giustizia climatica, decarbonizzazione, “teniamo il petrolio sottoterra”, riconoscimento dei diritti della natura e delle comunità, ecocidio, resistenza nonviolenta. Un movimento globale che ha dichiarato uno stato di emergenza climatica intrecciando la critica alla fase attuale del capitalismo estrattivista, a quella delle strutture di potere patriarcale dove l’umano è sempre solo sinonimo maschile, alla costruzione di linguaggi e pratiche autenticamente “decolonizzate”. Sotto quest’ottica l’accordo di Parigi assume contorni ben diversi da quelli proposti dalla “vulgata” dominante. Pensiamo, ad esempio, all’impegno per contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi. Alla COP20 di Lima, si chiese ai governi di presentare prima di Parigi contributi volontari al perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, mitigazione e adattamento (nell’acronimo inglese INDC). Il totale delle INDC presentate prevede una riduzione della temperatura di 2,7 gradi centigradi contro 1,5 e il testo di Parigi lascia poco a sperare, visto che il punto cruciale sulla riduzione dell’aumento della temperatura resta assai vago, e non vincolante: si prevede una meta o “aspirazione” verso il contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Altro elemento importante riguarda la “restituzione” attraverso il finanziamento per le politiche climatiche, di 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, da far gestire a istituzioni quali il Fondo Verde per il Clima. Una cifra inadeguata se si pensa che per la prospezione di nuovi giacimenti di combustibili fossili solo nel 2013 le imprese del settore hanno speso 670 miliardi di dollari e che il testo concordato a Parigi non fa alcun riferimento all’urgenza di ridurre progressivamente l’estrazione e il consumo di combustibili fossili, Eppure i numeri parlano chiaro: per evitare un ulteriore aumento delle temperature si dovrebbe lasciare sottoterra almeno l’80% delle risorse fossili conosciute, facendo così pace con il pianeta, ma anche risolvendo alla base uno dei più ricorrenti fattori che alimentano o determinano le guerre e i conflitti soprattutto nel Medio Oriente, il petrolio.
Clima e guerra
Tra i vari seminari tenutisi nel controvertice per la giustizia climatica a Montreuil, uno ha affrontato le relazioni tra conflitti, clima ed energia, la cosiddetta “climate security”. A Montreuil si è cercato di fare un passo in avanti per analizzare, grazie anche al lavoro di ricerca svolto negli ultimi anni dal Transnational Institute di Amsterdam, il rapporto esistente tra militarizzazione, securitizzazione della sfera pubblica, e impatti socio-ambientali dell’estrazione di combustibili fossili. Un’importante ricerca (The secure and the dispossessed: how the military and corporations are shaping a climate-changed world), presentata a Montreuil analizza le varie questioni relative a clima conflitti, militarizzazione, impatti dei mutamenti climatici sulla sicurezza umana e sopravvivenza di milioni di persone alle strategie perseguite dagli apparati industrial-militari per trasformare il tema del “climate change” in una nuova frontiera di profitto e di espansione o per rispondere ai disastri climatici.
Un rischio che i due curatori, Ben Hayes e Nick Buxton, sintetizzano così “per la sua stessa natura l’approccio securitario/militare tralascia di considerare le cause sistemiche dei cambiamenti climatici e quindi le profonde trasformazioni necessarie nelle istituzioni occidentali, nelle società e nelle strutture organizzative. Insomma, il nemico è sempre altrove”. Ancora: “Uno dei risultati tangibili dell’adozione diffusa di un approccio securitario (anche al tema dei cambiamenti climatici, NdT) è stato il rafforzamento degli apparati di sicurezza nazionale, nel nome dell’imperativo di tenerci ‘al sicuro’ rispetto agli ‘altri’, siano essi popolazioni povere, rifugiati o terroristi. Questa risposta irrazionale e perversa promette di smantellare le libertà civili, consolidare relazioni inique, e soffocare il dibattito politico, e allo stesso tempo proteggere il sistema economico e politico dai cambiamenti necessari per affrontare le sfide attuali”. Un messaggio chiaro, quindi. anche per i movimenti che oggi in Italia cercano di riannodare reti e percorsi comuni, coniugando i temi della pace con quelli dei diritti dei migranti o della giustizia climatica per cercare di riattivare, anche nel nostro Paese, quello spirito di rispetto dell’ambiente, evidenziato a Parigi, nel dicembre 2015. Una città ferita dalla violenza del terrorismo, ma che ha saputo proporre chiavi di lettura e di lavoro collettivo per la costruzione dal basso di una società più giusta, democratica, pulita e pacifica.