Lo schiaffo di Strasburgo
Erano a Genova nel 2001 per mostrare al G8 “un altro mondo possibile”, e chiedevano diritti per i migranti, argini per la finanza predatoria, rispetto per l’ambiente: si sono ritrovati nella “macelleria messicana” della scuola Diaz, o nella caserma di Bolzaneto, un luogo di sospensione dei diritti creato come “limbo temporaneo” tra la piazza e il carcere, dove però sono rimasti il tempo necessario per subire torture ormai accertate da un lungo percorso giudiziario.
Il ricorso
Sono i manifestanti che hanno presentato ricorso alla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo (Cedu) contro la mancata punizione dei responsabili di quelle violenze, che in alcuni casi sono rimasti impuniti (come nel caso della tredicesima firma mai identificata sul verbale di perquisizione della scuola Diaz) e in altri casi, come quello di Bolzaneto, sono andati prescritti perché nel nostro ordinamento è assente un reato di tortura e il reato di “lesioni” arriva a prescrizione in sette anni e mezzo. Anche quando ci sono state condanne definitive in sede penale, come nel processo Diaz, i condannati sono rimasti in servizio come “tutori dell’ordine”, e nessuno di loro è stato raggiunto da provvedimenti disciplinari che ne abbiano rallentato o interrotto la carriera.
La Corte di Strasburgo si è già occupata della giustizia negata ai “no global” dal sistema giudiziario italiano, con una sentenza dell’aprile 2015 a favore di Arnaldo Cestaro, picchiato a 62 anni nella scuola Diaz con danni permanenti a un braccio e una gamba in seguito alle fratture provocate dai manganelli.
Oggi a quelle violenze si aggiunge una nuova umiliazione, con il governo italiano che, in una lettera alla Corte Europea per i Diritti Umani, ha proposto ufficialmente di far pagare ai contribuenti italiani le mancate sanzioni disciplinari ai condannati in divisa, chiudendo un ricorso presentato da 31 vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto con un risarcimento in denaro considerato insultante dai diretti interessati, che non ne fanno una questione di soldi, ma di diritti.
A proporre questa “conciliazione amichevole”, è stato il ministero degli Esteri con una comunicazione del 1° dicembre scorso, dove il governo sottolinea di non voler sminuire la “serietà e l’importanza degli episodi che si sono verificati nella caserma di Bolzaneto” e aggiunge che “i gravi e deplorevoli crimini commessi dagli agenti di polizia costituiscono dei crimini” a cui “lo Stato italiano ha reagito in modo adeguato”.
Quale conciliazione?
Non la pensa così il giornalista Lorenzo Guadagnucci, vittima delle violenze alla Diaz e cofondatore del “comitato Verità e Giustizia per Genova”: “Si sta giocando una partita truffaldina – ha dichiarato Guadagnucci – Anche a me è stato proposto di chiudere la causa in sede civile con una cifra di 40 mila euro in cambio del ritiro del ricorso. Ho rifiutato e lo rifarei. Per risanare il torto fatto a Genova bisogna fare una legge contro la tortura che non è quella discussa in Parlamento, prendere provvedimenti rispetto ai condannati che sono in servizio, nessuno dei quali è sottoposto a procedimenti disciplinari o è stato licenziato. Non credo che questo sia il modo in cui un governo serio può uscire da questa vicenda. Dimostra solo l’imbarazzo di una democrazia rispetto a una polizia che non rispetta i suoi principi. In Italia esiste un’idea assurda: che le forze dell’ordine siano speciali e possano derogare ai principi della convivenza che una Corte europea giudica necessari”.
Sul nostro governo pendono altri due ricorsi collettivi presentati alla Cedu, che riguardano 32 vittime di Bolzaneto e 40 vittime della scuola Diaz. E, di fronte a questi numeri, si capisce come mai lo Stato italiano abbia scelto la strada della “conciliazione”. Ma senza fare i conti con chi ha fame di giustizia e non di soldi.
La nostra risposta è un deciso no – spiega l’avvocato Riccardo Passeggi che difende due vittime tedesche – Non abbiamo bisogno delle elemosine del governo italiano. Nessuno ha mai chiesto scusa per i fatti di Bolzaneto. Lo Stato italiano deve istituire il reato di tortura”.
Il reato di tortura
L’introduzione del reato di tortura in Italia farebbe uscire dal limbo delle buone intenzioni la convenzione ONU sulla tortura ratificata dal nostro Paese nel 1984, ed è una misura auspicata anche dalla Corte di Strasburgo, che nelle sue sentenze sui fatti di Genova ha richiamato l’Italia al rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, in cui, oltre alla tortura, sono espressamente vietati anche i “trattamenti inumani e degradanti”. Questo documento sottoscritto dall’Italia nel lontano 1950, dopo mezzo secolo e nel millennio successivo alla sua ratifica non ha ancora trovato una corrispondenza nel nostro Codice Penale, a riprova dei problemi che affliggono un Paese che, una volta, era considerato la patria del diritto e della civiltà giuridica.
Nella sentenza “Cestaro contro Italia” del 7 aprile 2015 la Cedu ha dichiarato che “la legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare i reati di tortura e priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili in futuro”.
Il giorno successivo a quella sentenza Matteo Renzi dichiarò in un tweet: “Quello che dobbiamo dire, lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese”. Da allora niente si è mosso, e l’associazione Antigone, storicamente attiva sui temi dei diritti umani, ha commentato con un appello al premier la proposta del nostro governo di chiudere il caso Diaz/Bolzaneto con una transazione economica.
“Ci rivolgiamo a lei, Presidente del Consiglio – ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – affinché quel tweet possa diventare una legge. Da allora non è successo nulla, e la proposta di legge è addirittura scomparsa dai lavori parlamentari, nel frattempo l’Italia è stata condannata per 33 volte di fronte alla Corte europea per i diritti umani, e le nostre autorita’ preferiscono pagare un milione e mezzo di euro per non introdurre il reato di tortura nel codice penale”.
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Silenzi e omissioni
Accanto alle dichiarazioni di Renzi, restano nero su bianco anche quelle del capo della Polizia Alessandro Pansa, rilasciate lo scorso aprile in seguito alla sentenza di condanna da parte della Corte europea per i diritti umani: “Stiano certi tutti gli italiani che non ci sarà mai più un’altra Diaz – ha dichiarato Pansa in quella occasione – Non potrà più esserci. Io me ne faccio garante, non solo perché la Polizia è cambiata, ma perché lo devo ai miei stessi poliziotti che mi manifestano la loro aspirazione a che vengano adeguatamente riconosciuti e rappresentati i valori dell’onore, della lealtà e della fedeltà alle leggi e alla Costituzione ai quali quotidianamente ispirano il loro delicato lavoro”.
A molti mesi di distanza da queste parole, purtroppo, tra le leggi menzionate da Pansa non possiamo ancora annoverare delle misure specifiche per punire chi abusa del suo ruolo di pubblico ufficiale per compiere violenze in divisa su soggetti inermi, che vivono sulla loro pelle la differenza tra uno stato di diritto e uno stato di Polizia. A questo si aggiungono tanti altri temi spinosi nel rapporto tra Stato e cittadini, e lasciati ai margini dell’agenda politica, come l’introduzione di codici identificativi sulle divise, già presenti in altri Paesi, ma osteggiati nel nostro.