Per il diritto alla pace
Nonostante la guerra mondiale “a pezzetti”, stigmatizzata da papa Francesco, vada assumendo marcati caratteri di un cancro in diffusa metastasi, in seno al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite c’è chi continua a opporsi a che la pace sia riconosciuta come un diritto fondamentale della persona e dei popoli. Tre anni di discussioni al Palais des Nations di Ginevra non sono bastati a mettere a punto il testo di una Dichiarazione delle Nazioni Unite portante su questo tema cruciale. Tutto è cominciato nel 2010, quando il Consiglio, composto dai rappresentanti di 47 Stati membri dell’ONU, ha incaricato il suo Comitato Consultivo, formato da esperti indipendenti, di preparare la bozza di una Dichiarazione “sul diritto alla pace”. Il primo dei 14 articoli di questa bozza così recita:
“1. Gli individui e i popoli hanno il diritto alla pace. Questo diritto deve essere implementato senza alcuna distinzione o discriminazione per ragioni di razza, nascita, origine etnica o nazionale, colore (…).
2. Gli Stati, individualmente e collettivamente, o quali parti di organizzazioni multilaterali, sono la principale controparte del diritto alla pace. 3. Il diritto alla pace è universale, indivisibile, interdipendente e interrelato. 4. Gli Stati saranno vincolati dall’obbligo giuridico di rinunciare all’uso o alla minaccia dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. 5. Tutti gli Stati, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, devono usare mezzi pacifici per la risoluzione di qualsiasi controversia di cui siano parte. 6. Tutti gli Stati devono promuovere l’istituzione, il mantenimento e il rafforzamento della pace internazionale in un sistema basato sul rispetto dei principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite e la promozione di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali, compresi il diritto allo sviluppo e il diritto dei popoli all’autodeterminazione”.
I successivi articoli esplicitano il contenuto del diritto-dovere della pace con riferimento a temi quali sicurezza umana, disarmo, educazione e formazione alla pace, obiezione di coscienza, aziende militari e di sicurezza private, resistenza e opposizione all’oppressione, peacekeeping, diritto allo sviluppo, diritto all’ambiente, vittime e grupppi vulnerabili, rifugiati e migranti, organo sopranazionale di monitoraggio sul comportamento degli Stati.
Nel 2012 il Consiglio istituisce un Gruppo di lavoro intergovernativo col compito di “progressivamente negoziare” il contenuto della Dichiarazione partendo dal testo fornito dal Comitato Consultivo. La decisione è adottata a maggioranza, con la ferma opposizione degli Stati Uniti d’America e l’astensione della maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale. Per il prosieguo dei lavori risulta decisivo il voto del blocco dei Paesi latinoamericani. Il Gruppo di lavoro opera nel corso di tre sessioni, l’ultima delle quali, che avrebbe dovuto essere quella conclusiva, nell’ultima settimana di aprile 2015.
Tra una sessione e l’altra, il Presidente del Gruppo di lavoro, l’Ambasciatore costaricano Christian Guillermet Fernandez, ha proceduto a consultazioni presso i governi, le organizzazioni intergovernative, le organizzazioni non governative, il mondo universitario. Alla terza sessione hanno partecipato 80 Stati membri dell’ONU (quindi quasi il doppio dei membri del Consiglio), la Santa Sede e la Palestina, l’Unesco, il Consiglio d’Europa, l’Unione Europea, la Lega degli Stati Arabi, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, 30 organizzazioni non governative (tra le quali l’Associazione internazionale dei giuristi democratici, la citata Società spagnola per il diritto internazionale dei diritti umani, l’Associazione americana dei giuristi, la Fondazione Al-Hakim, l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, l’Istituto internazionale Maria Ausiliatrice dei Salesiani), nonché l’Esperto Indipendente delle Nazioni Unite sulla promozione di un ordine internazionale democratico e giusto.
La posta in gioco
La magnitudine di questa partecipazione si spiega con l’importanza della posta in gioco: si trattava, infatti, di decidere se proseguire il “negoziato” con ulteriori sessioni oppure se chiudere la partita pena il fallimento dell’intero processo, soccombendo così alle ragioni dei suoi oppositori. L’Ambasciatore Guillermet si era presentato al terzo appuntamento con una bozza di Dichiarazione caratterizzata da un lunghissimo “preambolo” e da uno striminzito “dispositivo” fatto di quattro articoli, dei quali i primi due recitano:
“Ognuno ha il diritto di godere la pace in modo tale che la sicurezza sia mantenuta, tutti i diritti umani siano promossi e protetti e lo sviluppo sia pienamente realizzato”, e “Gli Stati dovrebbero rispettare, implementare e promuovere l’eguaglianza e la non discriminazione, la giustizia e lo stato di diritto e garantire la sicurezza dei loro popoli, soddisfare i loro bisogni e assicurare la protezione e la promozione dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali universalmente riconosciuti quale mezzo per costruire la pace”. Sic!
Perché si oppongono?
Si compari questo testo con quello del citato articolo 1 della bozza originaria di Dichiarazione e si avrà il senso della tentata turlupinatura a vantaggio degli oppositori del diritto alla pace. La strategia per così dire minimalista di Guillermet fallisce sotto una pioggia di critiche, provenienti in particolare delle organizzazioni non governative che sottolineano come il mandato ufficiale del Gruppo di lavoro sia quello di produrre un atto che segni un passo avanti, nel senso della obbligatorietà del contenuto, rispetto a precedenti raccomandazioni delle Nazioni Unite in materia. Guillermet puntava a ottenere il consenso degli Stati senza bisogno di porre in votazione il testo della sua proposta argomentando che, in presenza di una Dichiarazione così importante e per dare forza ai relativi obblighi, la comunità degli Stati avrebbe dovuto esprimersi all’unanimità. Dimenticava che, per la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il 10 dicembre del 1948 si procedette non per consenso ma con votazione.
Le critiche delle ONG sono contenute in una dichiarazione scritta, firmata da un cartello di 91 organizzazioni, le quali chiedono al Gruppo di lavoro intergovernativo di andare avanti nel rigoroso rispetto del mandato ricevuto nel 2012, di recuperare il testo della originaria bozza di Dichiarazione tenuto conto che c’è una maggioranza di stati favorevoli, di affermare il diritto umano alla pace quale diritto specifico che è già “profondamente radicato nel diritto internazionale dei diritti umani”. Si era temuto che tutto naufragasse nell’aprile del 2015 e invece, grazie soprattutto alle pressioni del mondo di società civile, il Gruppo di lavoro si riunirà di nuovo dall’11 al 15 aprile 2016.
La Campagna
La Campagna per il riconoscimento del diritto alla pace, lanciata in Italia nel 2013 dal Centro Diritti Umani dell’Università di Padova e dal Coordinamento nazionale degli Enti locali per la pace e i diritti umani. non è estranea a questo successo quanto meno tattico. Le delibere di oltre 200 Consigli comunali e di 5 Consigli regionali hanno raggiunto tutti i quarantasette membri del Consiglio diritti umani, in particolare hanno indotto la nostra Rappresentanza diplomatica a Ginevra a interessarsi più attivamente della negoziazione in corso.
L’auspicio è che delegazioni degli enti locali e dell’associazionismo trovino il modo di farsi presenti al Palais des Nations durante i lavori della quarta sessione del Gruppo di lavoro. A questo fine occorre avvalersi della collaborazione di ONG beneficianti di status consultivo presso le Nazioni Unite e, perché no?, anche della cortese assistenza della nostra Rappresentanza diplomatica, consapevoli che stiamo facendo fare bella figura al nostro Paese e che la Campagna italiana è molto apprezzata per originalità dei contenuti e ampiezza di partecipazione. Vale, dunque, la pena approfittare di questo credito e intensificare la pressione sul processo negoziale in corso a Ginevra.