Paradisi fiscali
Panama Papers, l'operazione che rivela l'esistenza di conti all'estero, tutto sommato ci dice ciò che già sappiamo, ovvero che chi ha tanti soldi cerca di sottrarli alla tassazione del proprio Paese mettendoli al riparo in depositi sicuri che sfuggono al drenaggio delle tasse. La novità non di poco conto sono piuttosto i nomi tra i quali figurano anche quelli di uomini politici (e capi di Stato) che impongono proprio quelle tassazioni o quelli di importanti manager che hanno fatto la loro fortuna gestendo aziende e opere pubbliche che proprio di quelle tasse si sono nutrite. Ma il vero problema è che la comunità internazionale che è in grado di decidere la sorte dei popoli, di stabilire le regole dell'economia mondiale e di muovere guerre sanguinose, ritenga del tutto normale l'esistenza di paradisi fiscali e non abbia mai mosso un dito contro di loro. Appare del tutto evidente che se quell'enorme flusso di denaro fosse normalmente sottoposto alle imposte, contribuirebbe a migliorare le condizioni di vita, la qualità della vita, di interi popoli in giro per il mondo. Forse non si tratta semplicemente di una forma di ipocrisia politica colossale e globale ma piuttosto di un meccanismo di protezione della finanza che si chiama fuori, si giudica cioè estranea e superiore alle crisi, alla povertà, al cambiamento. E per gente che come tutti è destinata a morire, trovo questo di una meschinità che mi fa più pena che rabbia. Questo avviene quando una persona ritiene che l'unico paradiso esistente sia quello fiscale, appunto.