La mafia in televisione
Pensare che l’intento del conduttore di Porta a porta fosse quello di far conoscere di più la mafia o ancora più precisamente di aumentare l’audience o di promuovere un libro è da ingenui. Che quest’ultimo fosse anche l’unico intento dell’intervistato è altrettanto da ingenui. La posta in palio era altra. Da parte del conduttore della trasmissione vi era la volontà di mostrare il suo potere in casa RAI imponendo le sue scelte al di sopra del giudizio della Commissione Antimafia, della Commissione di vigilanza, della stessa presidenza aziendale, delle associazioni dei giornalisti e dell’opinione pubblica. Una prova di forza e di potere. Da parte dell’intervistato sicuramente la volontà strategica di presentare una mafia commestibile con la quale si può convivere ma soprattutto di voler screditare i collaboratori di giustizia che anche il conduttore si ostinava a definire “pentiti”, di lanciare loro avvertimenti nemmeno tanto latenti e di infangare con palesi falsità l’azione di contrasto dello Stato. È stato già detto, ma è bene ribadirlo, che tutto questo rischia se non di demolire, certamente di compromettere pesantemente l’azione di quanti sono impegnati seriamente in un’azione educativa a favore della legalità e di quanti sono in prima linea nell’attività di contrasto diretto. Ma soprattutto è una ferita ulteriore alle tante persone cui sono stati sottratti gli affetti più cari e un’offesa alla memoria di chi si è trovato a pagare il prezzo più alto. Sono ragioni sufficienti perché ministri, magistrati, giornalisti e familiari d’ora in poi declinino gli inviti di quella redazione a partecipare al programma. È uno scatto di dignità e la possibilità di mostrare quali strade scegliere per fare vera antimafia.